Cinema 2014 (e un po’ di Televisione)
I N T R O
Stilare classifiche è sempre problematico, specie quelle di fine anno. Il meglio (o il peggio), complice una memoria molto spesso labile, si perde in mille sfumature, ripescaggi ed inevitabili dimenticanze. I film dell’anno, le immagini dell’anno, un anno di immagini: il gioco della classifica è inevitabile quanto, appunto, necessariamente ludico, senza pretese di completezza, tanto meno d’oggettività (ed è anche occasione per recuperare qualche film di cui non s'è parlato in precedenza).
CINEMA
Fine dell’anno/fine del tempo, fine di un tempo: fine del cinema da The Canyons (che è del 2013, ma profetizza il futuro, quindi anche il 2014) a Maps to the stars il passo è breve. Hollywood non è mai stata così critica con se stessa, col concetto di immagine e di apparenza. E il cinema? Ruderi di multisala e ruderi umani, grovigli di pellicola ormai inutile
(?) abbandonati nella polvere. La stessa polvere di Interstellar, quella che ricopre il pianeta Terra, ormai post-umano, ma che non può o non vuole trasformare in cinema una bella metafora, farsi fantascienza della visione. La sci-fi del 2014 è infatti tutta sotto la pelle (Under the Skin) di Scarlett Johansson, e il passo di Jonathan Glazer dal videoclip alla teoria (del cinema) pura è assai breve – dalla pelle, alla pellicola al digitale, e poi? – si cerca comunque di ripensare un linguaggio, un cinema tattile, un cinema che s’affida alla casualità d’un punto di vista altro, che anela continuamente al decentramento. Sì perché il vero evento cinematografico dell’anno è la completa digitalizzazione: rivoluzione del linguaggio oltre che della riproducibilità tecnica della settima arte. E se ne sono accorti in molti, se il linguaggio è il filo conduttore di molti film di quest’anno (sia esso stravolto, analizzato, velocizzato, o abbandonato).
E a proposito di lingua e linguaggio (animato/parlato/pensato) il documentario di Michel Gondry Is the man who is tall happy? An animated conversation with Noam Chomsky ci dimostra che il cinema filosofico è ancora possibile e può anche diventare un cartoon, un’animazione (come sempre in Gondry) primitiva e naif. Rimanendo all’animazione questo è stato anche l’anno di Lego Movie capolavoro psichedelico spinto a velocità massima, tour de force visivo, flipper coloratissimo (prossimo più a Timothy Leary che a Walt Disney); ma è anche l’anno di Adieu au langage, altra scheggia di colore impazzito. Godard gira in 3D un film per dirci che non abbiamo più la possibilità (la capacità) di vedere.
Uno iato teorico, un ossimoro tecnologico che demarca la differenza tra vedere e vivere; tra raccontare ed essere. Allo specchio (al cinema) la visione è anche possibile ma si ripresenta, immutato, il problema del doppio (stereoscopico): bisogna dissodare il linguaggio – diceva Wittgenstein – e il cinema (che è un’arte giovane ma che inevitabilmente riflette, moribonda, sul proprio equivoco di base, quello della rappresentazione) ci sta ancora provando: dice addio al linguaggio perché non riesce a vedere, o non riesce a liberarsi della sovrastruttura della visione (alla dittatura dello spettacolo). "Non è l'animale ad essere cieco, ma l'uomo, accecato dalla coscienza, incapace di guardare il mondo". Tra tecnologia e filosofia: il cinema sta in mezzo (e i titoli di coda del film danno una dimostrazione grafica di questa doppia articolazione del linguaggio filmico).
Il 2014 è anche l’anno del "porno-teo-kolossal" Nymphomaniac vol. 1 e 2, racconto fiume cut/uncut di Lars Von Trier, opera che dimostra che il regista danese riesce ad essere assai più sincero quando lavora d’ironia e che le sue ossessioni massime, Dreyer e Tarkowskij, possono essere incanalate in un cinema grande, che si solleva da terra (magari accompagnato da quella corale di Bach/Tarkowskij che è ormai una costante del suo cinema). Ma è ancora americano quello che probabilmente è il film più importante (se non il più bello) dell’anno: Boyhood di Richard Linklater, film in progress, riflessione sul tempo che passa e che scorre (come la pellicola: si può dire anche per gli 0 e gli 1 del digitale?), le cui riprese sono durate dodici anni; una storia che, senza soluzione di continuità, ci dice tutto sull’immagine/tempo e sul continuo mutarsi della forma e del corpo. Un mutamento impercettibile ma costante. E in più Linklater ci regala un nuovo Antoine Doinel, forse meno problematico e concentrato in un unico film, ma altrettanto simbolico.
E il cinema italiano? Tra cinema medio e conformista e cinema "invisibile" (e molto spesso grande) il divario si fa sempre più pesante, ma sacche di resistenza (anche su canali alternativi) fanno riemergere dall'oltretomba della distribuzione titoli ed autori interessanti. Belluscone innanzitutto, anche se forse andrebbe messo in una (ipotetica) classifica del post-cinema, un gruppo a parte, una storia a parte (un discorso che Maresco “solista” inizia con Io sono Tony Scott e che qui continua in maniera egregia): la farsa dell'Italia d'oggi nel suo già essere post-apocalittica. Ce ne sono pochi di registi come Franco Maresco. Poi Il Giovane favoloso, di un Martone didattico ma non (troppo) scolastico, film che penetra dentro Leopardi ma resta un film sull’oggi e sulle radici ottocentesche della nostra contemporaneità (un corollario/continuazione al precedente Noi credevamo).
TELEVISIONE: LE SERIE
E se il meglio venisse dalla televisione? Quello della televisione (della serialità televisiva) che ormai compete e (spesso) supera il cinema è ormai quasi luogo comune, ma nasconde un fondo di verità. The Knick, diretto, fotografato, girato e montato da Steven Sodebergh è, per chi scrive, il picco del cinema americano di quest’anno appena trascorso: un controllo autoriale serratissimo su un prodotto seriale (che si trasforma in un laboratorio di sperimentazione sull’immagine, e sulle potenzialità del digitale) è già di per sé una piccola rivoluzione; se questo controllo porta poi a risultati del genere non possiamo altro che constatare che l’esperimento ha funzionato, e forse ha aperto una nuova via. Anche True detective procede su un binario simile (unico regista, qualità incredibilmente sopra la media), travalicando le leggi del genere – che però non sono mai infrante – e mettendo in piedi un affresco esistenziale antieroico, permeato d’un “pessimismo cosmico” e d’un titanismo quasi herzoghiano che diventano riflessioni sull’uomo più che classico prodotto seriale. Una detective story che si trasforma in riflessione antropologica: l’Europa risponde con P’tit Quinquin serie francese prodotta da Arte e diretta da Bruno Dumont (da noi in uscita a maggio 2015 ma passata al Festival di Torino), film dell’anno per i Cahiers du Cinéma (e anche questa è una piccola/grande rivoluzione).
Il regista di Hors Satan si reinventa attraverso la televisione; ma i cambiamenti sono solo apparenti: attraverso la commedia demenziale il regista continua a trattare gli argomenti che più gli sono cari. Il male, assoluto e cieco, si colora degli attributi del riso sguaiato e carnascialesco. Si ride molto in P’tit Quinquin, ma a provocare ilarità non è solo la tragedia ma l’Inferno stesso sceso in Terra, la follia generale dell’essere umano (ma anche della natura, perché gli unici colpevoli certi sono mucche, ma “pazze”). L’inferno sulla terra e il male nel mondo, e se il colpevole fosse le diable (probablement)? Sì, perché nonostante la commedia (degli equivoci? O sarebbe più appropriato parlare di equivoco della commedia?) il referente principale di Bruno Dumont resta sempre quel Robert Bresson che aveva indagato il male così a fondo – e così all'interno (dell’uomo, oltre che del mondo), e che – a pensarci bene – aveva esordito, negli anni ’30, con una commedia para-surrealista (Les affaires pubiques, 1934). Davvero questa miniserie va affiancata all’americana True Detective (e forse anche a Twin Peaks). Certo si tratta di due mondi, due linguaggi, due modi di fare cnema assai differenti; ma le seria hanno in comune la stessa visione del mondo: sono il ritratto (l’uno drammatico, l’altro farsesco) del regno del caso e del caos, due non-polizieschi in cui l’ultimo problema che si ha è quello di individuare un colpevole singolo. Non c’è più bene e male, ma solo un enorme caos. C'quoi 'c'bordel ? si chiede, col suo slang del Nord-Passo di Calais, il comandante Van Der Weyden, protagonista della serie. La risposta è semplice: è il disordine che ci governa (e che il cinema fotografa).
(Poi, in ordine sparso, ancora tra cinema e TV: Mud, Joe, Gone Girl, The wolf of Wall Street, The Leftovers, Guardiani della galassia, Pasolini di Abel Ferrara, Grand Budapest Hotel, Broadchurch, Frances Ha, A proposito di Davis).
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