The Canyons Paul Schrader
“The Canyons” è un film costruito su macerie: macerie del cinema, macerie del noir e del thriller, macerie della bellezza. In una parola, è un film costruito su quello che resta di Hollywood, e lo spettacolo che Paul Schrader ci offre è assai desolante. Il film si apre con una serie di piani fissi su cinema (multiplex e non) abbandonati, vuoti, desolati; archeologia d'un passato recente, riflessione amara e cupa su un mondo in rovina, e sulla cecità del cinema stesso nel non accorgersi del proprio declino, e soprattutto della propria e inevitabile decadenza, almeno nella sua immagine tradizionale. In queste prime, bellissime, immagini è racchiuso il senso tutto del film. Come in “Holy Motors” di Leos Carax (altro grande canto del cigno del cinema "meccanico") anche Schrader, in apertura della pellicola, mostra una sala cinematografica, ma laddove Carax la riempie di spettatori metaforicamente addormentati, Schrader la presenta più semplicemente vuota, abbandonata, circondata dai reperti in decomposizione di un divertimento che ormai aleggia come un fantasma, in un non luogo che si è ormai trasformato in un mausoleo della settima arte. Le sale cinematografiche hanno ormai perso la centralità nella rappresentazione/fruizione del film, il cambiamento è ormai avviato, la crisi è palese e le conseguenze sono ancora incerte. La mutazione in atto nel cinema, che ormai riguarda tutti gli aspetti della sua produzione, realizzazione e fruizione, ha prodotto macerie dettate ancora una volta dalla cecità di chi non si è accorto, o non ha saputo o voluto prevedere questa trasformazione. Hollywood e l'industria cinematografica in generale esalano un ultimo respiro, ancorati ad un'idea di cinema ormai fatiscente sotto tutti i punti di vista: economico, artistico, estetico, ma anche sociale e, perché no, mondano.
La sceneggiatura s'incastra perfettamente all'interno di questa riflessione sul mezzo-cinema, ne fornisce un pendent umano altrettanto significativo. I personaggi creati da Bret Easton Ellis (autore di soggetto e sceneggiatura) s'aggirano in una Hollywood ridotta a paese, dove tutti conoscono tutti, dove le ossessioni per il potere ed il controllo ruotano attorno a situazioni che sono una pallida eco di quello che il mondo dorato del cinema americano poteva offrire ai suoi abitanti nei suoi anni d'oro. Christian (il pornodivo James Deen, alla sua prima esperienza fuori dall'hard), produttore cinematografico per noia, considera i suoi veri capolavori i filmini porno che gira con l'iPhone, con protagonista la compagna Tara e occasionali partner ingaggiati per l'occasione. Tara - rivisitazione decadente del personaggio femminile archetipico del noir americano - ex attricetta dalla bellezza ormai sfatta (perfetta Lindsay Lohan nel ruolo) è divisa tra il simulacro della vita lussuosa del mondo del cinema (di cui rimane la libertà dei costumi, ma del divertimento neanche l'ombra), e l'altrettanto falso e squallido tentativo di fuga in un amore giovanile che torna nella sua vita. Intanto tutti parlano d'un film da realizzarsi, ma la vicenda da centrale diventa sempre più periferica, la produzione arranca senza motivi apparenti se non per una naturale fiacchezza di un modello produttivo ormai stanco di per sé. È il cinema stesso che è in crisi, i suoi meccanismi ancorati ancora ad un mondo ormai inevitabilmente obsoleto e che riguarda tutti: produttori, spettatori, attori, tecnici. Tutti sembrano navigare a vista, come i protagonisti del film, inconsapevolmente travolti da una serie di eventi da cui non possono far altro che lasciarsi travolgere, privi degli strumenti per orientarsi nel mondo nuovo. La rivoluzione è di forma e contenuto, e The Canyons fotografa gli ultimi istanti delle vecchie strutture, dei meccanismi tradizionali in via di estinzione.
Le forme del noir classico e i personaggi stessi vengono travolti dall'inevitabile senso di decadenza di cui il film è permeato, la riflessione sul cinema passa anche attraverso la costruzione (nella loro inevitabile caduta) dei personaggi. L'ossessione per il controllo di Christian diventa metafora dell'impossibilità di controllare il mezzo-cinema in sé, ormai tanto sfuggente quanto onnipresente nella vita di tutti. Hollywood è morta e gli ultimi rimasugli, larve sbiadite d'una grandezza tramontata, vagano senza speranza, e soprattutto senza controllo, giocando con il cadavere tecnico e narrativo d'un cinema che sembra aver perso ogni contatto con l'evoluzione del reale. Il cinema è ad un bivio, il nuovo avanza ma non è ancora definito, è un ibrido; e questo stato di mescolanza tra vecchio e nuovo permea tutto il film, sottolineato dall'impalpabile odore di decadenza sprigionato dalle immagini, anch'esse sempre in bilico tra raffinatezza (lunghi piani sequenza) e rappresentazione sciatta ed istantanea (lo smartphone nuova macchina da presa). The Canyons s'inserisce dunque in quel filone del cinema contemporaneo che riflette su se stesso e sul proprio evolversi, e dunque riflette sul reale (ma allo stesso tempo attualizza una ricerca che il regista porta avanti da tempo, si veda "Autofocus"), e rappresenta forse la pars destruens di un discorso assai articolato e complesso. Paul Schrader non è nuovo a operazioni del genere, il suo è sempre stato un cinema teorico; ed è lui stesso che in contemporanea con The Canyons ci offre anche la pars construens di quanto affrontato nella pellicola. Il cortometraggio presentato all'ultimo festival di Venezia, nell'ambito del progetto Future reloaded non è altro che la risposta ad una presunta morte del cinema, una proposta che si chiede dove andrà il cinema e come saprà risorgere dalle proprie ceneri. La risposta ancora non c'è, ma è ormai assodato che lo spirito di fenice del cinema ha tutte le potenzialità di aprire nuove ed interessanti strade.
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