Boyhood Richard Linklater
“Credevo di avere più tempo”
(Patricia Arquette, Boyhood)
Il tempo è l'unità di misura della vita, ciò che le dà valore, che la rende unica; è però anche la cosa più difficile da rappresentare su grande schermo. Il tempo che passa veloce, che rallenta improvvisamente, che scorre implacabile e poi ci sorprende, ci coglie impreparati, ci tormenta con i rimpianti, il tempo che ci passa addosso inosservato e ci cambia continuamente: sono tutte sfumature quasi impossibili da ricreare efficacemente nella finzione. A meno che non si parli di registi di grande talento e ancor più grande pazienza. Richard Linklater ha fatto del tempo un punto cardine del suo cinema, dai primi film, Slacker e Dazed and confused, che si sviluppano nell'arco di 24 ore, a Tape, film del 2001 che si svolge in tempo reale, fino alla più famosa trilogia composta da Before Sunrise, Before Sunset e Before Midnight, che segue le vicende di Jesse e Celine in tre momenti della loro storia a distanza di quasi 10 anni l'uno dall'altro, portando alla luce un altro argomento caro al regista: il passaggio all'età adulta. Col passare degli anni si cresce, si passa dal sognante romanticismo del primo film alla disillusione del secondo, per arrivare all'amarezza e ai rimpianti del terzo: anche l'amore deve fare i conti con lo scorrere del tempo.
E forse l'amore che unisce i due protagonisti non è neanche così grande o abbastanza forte, forse non durerà, ma poco importa, perchè non è il susseguirsi di eventi ad aver peso per Linklater. Il suo cinema non è fatto di storie, non lo è mai stato: il suo è un cinema fatto di persone, è delle persone che lui vuole parlare. Ma mentre una storia è facile da raccontare, ha un inizio, uno svolgimento e una fine e se si vuole accorciare il racconto si possono lasciar fuori le parti facilmente riconoscibili come inutili allo svolgimento della trama principale, come fare se si vuole raccontare una persona? Quali sono le parti da tralasciare e quelle su cui soffermarsi? L'infanzia è assolutamente un punto cruciale della formazione di un individuo, ma come narrarla? Come cresce un bambino? Cos'è che forma il suo carattere? Ma soprattutto, quando queste evoluzioni avvengono? Non c'è un istante preciso in cui si diventa adulti, non c'è un evento chiave che trasforma un ragazzo in uomo: il passaggio è molto più graduale, lento, quasi impercettibile se osservato costantemente.
Allora Linklater sceglie un bambino di 6 anni (l'eccezionale Ellar Coltrane), gli costruisce un nucleo familiare intorno (la sorella maggiore, interpretata dalla stessa figlia del regista, e i genitori Patricia Arquette e Ethan Hawke) e li riunisce una settimana all'anno per girare qualche scena e nelle 51 settimane restanti monta il girato e scrive la sceneggiatura per l'anno successivo. Così per 12 anni. Si chiama Boyhood ed è probabilmente il capolavoro del regista texano. Per dodici anni e quasi tre ore di film seguiamo le vicende di Mason e della sua famiglia: in un fluire totalmente naturale, vediamo i bambini crescere, gli adulti invecchiare, i tempi cambiare (costanti i riferimenti storici e culturali che hanno segnato questo arco di tempo: da Bush a Obama, da Britney Spears a Lady Gaga, da Harry Potter a Twilight, dal Tamagotchi alla Xbox), vediamo la loro storia evolversi in maniera "reale", senza grandi colpi di scena, intrighi o enormi drammi (proprio come nella vita vera) e siamo in grado di entrare talmente tanto nelle psicologie dei protagonisti da poter davvero capire le loro scelte e i loro modi d'essere.
L'effetto è esattamente quello che si ha guardando i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri fratelli: non ci accorgiamo di quanto stiano cambiando sotto i nostri occhi, finchè un giorno realizziamo che sono adulti, che il tempo ci ha ingannato di nuovo, che un'epoca della nostra e della loro vita è finita mentre noi credevamo ancora che ci fosse tempo (come dice in lacrime la mamma Patricia Arquette al figlio pronto per andare al college). Il tutto poi è reso molto più verosimile da una regia a tratti quasi documentaristica, senza spettacolarizzazioni, dialoghi perfettamente calzanti (i discorsi pieni di banalità hanno un senso se detti da un ragazzo di 16 anni) e da un evidente affiatamento tra i membri del cast. In fondo vedersi per 12 anni, anche se solo per una settimana, inevitabilmente crea un legame e porta poi ognuno degli attori a mettere un po' di se stesso nel proprio personaggio, come il regista ha messo un po' di sé in tutto il film: dal Texas, sua terra natìa, attraversato in lungo e in largo dal protagonista al seguito della mamma e dei suoi divorzi, alla passione per la musica del padre Ethan Hawke che tenta di sfondare ma non ci riuscirà mai (dopotutto Linklater ha diretto il divertente School of rock), e il suo impegno politico (Obamiano convinto nelle elezioni del 2005; divertente la scena in cui Mason Sr. porta i figli a fare propaganda casa per casa).
Boyhood è uno strano esperimento, a metà tra film e documentario, che a seconda di come lo si legge può essere visto come biopic di ognuno dei suoi interpreti e del regista stesso, una sorta di diario di bordo degli ultimi 12 anni di vita di ognuno di loro (grande prova per i professionisti Hawke e Arquette: non è facile, soprattutto per chi del proprio corpo fa uno strumento di lavoro, metterlo a disposizione di un film che documenta innanzitutto il suo cambiamento). Un film di "sole" tre ore, ma che potenzialmente potrebbe durare per tutta la vita di Mason: in fondo non si smette mai di cambiare, di crescere, di imparare. E chissà che un giorno, magari tra altri 12 anni, non si venga a sapere che Linklater abbia continuato di nascosto questo progetto per farne un secondo film. Chissà. In fondo è solo questione di tempo.
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