Belluscone – Una storia siciliana Franco Maresco
Premio speciale nella sezione Orizzonti all’ultima Mostra del cinema di Venezia, Belluscone, una storia siciliana dimostra che in Italia un altro cinema è possibile. Un cinema senza compromessi, lontano dalla carineria ammiccante del cinema italiano medio, dal conformismo malcelato dei grandi poeti laureati della macchina da presa, dal birignao degli attori santificati sugli altari delle muse, dalla boria dei cultori della verità del cinema engagè, che ancora credono che il pubblico vada educato con un cinema “civile” ormai di terza mano. Il cinema di Maresco è lontano anni luce da tutto questo, nel suo essere orgogliosamente periferico, fuori dai salotti della borghesia romana, e dalle sovvenzioni statali: Belluscone, è cinema che contorce su se stesso il proprio linguaggio (come quella storpiatura del titolo) in un grottesco tagliente, comico e tragico allo stesso tempo. Il grottesco è un’arma affilata, e Maresco sa bene come usarla (e anzi, in pochi sanno utilizzarla così bene), che serve a riflettere sulla banalità del tutto, sulla necrosi d’una immagine ormai priva di significato.
Belluscone è la cronaca di un fallimento, ma è anche una lucida presa di posizione estetica ed artistica. Un documentario su Berlusconi e i suoi rapporti con la Sicilia diventa, fin da subito, la storia del fallimento del film stesso, delle difficoltà e dell’impossibilità di realizzarlo. Il suo autore si eclissa gradualmente, il film prende una direzione eccentrica, stravagante. Siamo al di là del metacinema, oltre il mockumentary. Un montaggio che unisce prima e dopo, frammenti originali e repertorio, recitazione e documentario trasformano Belluscone in un “oggetto cinematografico non identificato”, tentacolare ed affascinante, preludio ad un film mai realizzato, canto del cigno d’un film che tutti abbiamo visto. Il cinema di Maresco procede in realtà da quell’idea di morte del cinema che già Rossellini teorizzava e prevedeva negli anni Sessanta. È un cinema d’oltretomba il suo, una riflessione umana sulla condizione postuma dell’arte, dell’immagine e, di conseguenza, della realtà.
Berlusconi, quindi, smette di essere un’ossessione, uno spauracchio, un bersaglio; la sua immagine trasfigura, diventa una metafora, un fantasma in un paese di morti (che non è soltanto la Sicilia), di mummie (che da buon palermitano Maresco conosce bene). In questo mondo di mummie, di esseri ripugnanti, spregevoli, grotteschi lo storico del cinema Tatti Sanguineti si muove come un novello Caronte, ci traghetta alla ricerca d’un autore disceso agli inferi e ormai scomparso, sulle tracce d’un senso perduto. Quel senso del reale che la contemporaneità sembra aver smarrito da tempo. La sua, però, è una guida incerta, l’autore è sparito, volatilizzato, ma prima di andarsene ci ha lasciato uno specchio in cui guardare noi stessi. Questo è il cinema di Maresco: quel mondo è il nostro mondo, e noi lo guardiamo, ridendo sguaiatamente del nostro essere trapassati.
Per questo Maresco è un grande comico, come erano grandi comici Rabelais, Buster Keaton, Totò o (sì, anche lui) Carmelo Bene. La sua comicità scatologica, corporea e corporale dipingono un carnevale apocalittico che è l’apoteosi di una tragedia estremamente divertente. Il mondo si sgretola, ogni speranza è volatilizzata, ma noi imperterriti ridiamo perché siamo davanti ad uno spettacolo che è comicità pura (e Maresco, come pochi, conosce i tempi del comico). Ciccio Mira, impresario di cantanti neomelodici, berlusconiano e mafioso è una maschera comica inquietante. In un certo senso è l’evoluzione naturale, aggiornata ai tempi nostri, di quell’Enzo Castagna protagonista del capolavoro Enzo, domani a Palermo (diretto con Ciprì). Ma se Castagna era un clown che si muoveva in un mondo di mostri, Mira è uno spettro, una mummia che s’aggira in un mondo di morti (e geniale è la trovata di far passare repentinamente l’immagine dal colore al bianco e nero, e viceversa, ogni volta che Mira entra in campo). Questo mondo di morti è il nostro mondo.
Se con Cinico Tv e con le prove cinematografiche degli anni Novanta Maresco (allora con Ciprì) aveva raccontato un’apocalisse lirica, barocca, senza speranza ma con uno spiccato senso del sacro, con Belluscone (ma è un discorso che parte da lontano, almeno da Il ritorno di Cagliosto e Come inguaiammo il cinema italiano) l’apocalisse acquista minacciosamente una sempre più forte aderenza alla realtà quotidiana. Belluscone è il seguito ideale del film precedente del regista, Io sono Tony Scott, messa da requiem in salsa musical-jazzistica sull’Italia che uccide scientificamente ogni scampolo di bellezza con cui viene a contatto, un’apocalisse culturale a ritmo di free jazz. Non stupisce, quindi, che nonostante i premi il cinema di Franco Maresco rimanga sostanzialmente invisibile. Il cinema italiano, specie quello contemporaneo, percorre altre strade, strade più sicure e rassicuranti (siano esse quelle della commedia o del dramma), lontane dai mille dubbi, incertezze, ansie che un film come Belluscone suscita. Il pubblico italiano ha bisogno di essere rassicurato, ha bisogno di sentirsi dire che sotto la realtà deforme e grottesca si nascondano insperate quanto misteriose grandi bellezze. Il cinema di Maresco non offre rassicurazioni perché ragiona sulla fine, canta il de profundis alla civiltà occidentale: fine del cinema, fine della bellezza, fine della storia.
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