Is the Man Who Is Tall Happy? An Animated Conversation With Noam Chomsky Michel Gondry
Il problema della percezione della realtà è alla base di molta della produzione cinematografica di Michel Gondry. Problema di fondo del cinema stesso quello della realtà e della sua rappresentazione attraverso la lingua del cinema, nel cinema di Gondry viene affrontato in maniera quasi ossessiva: dalle implicazioni di vita e memoria di "The eternal sunshine of the spottless mind", passando per le sovrapposizioni oniriche di "L’arte del sogno", per arrivare alla memoria collettiva (e quantomai pop) della rappresentazione cinematografica riscritta in "Be kind rewind". Discorso sulla realtà (della lingua) che diventa spesso discorso sul cinema, sul mezzo di rappresentazione (e di falsificazione) di stati di cose come fermi in un limbo, in sospeso tra verità, espressione e linguaggio, tra ciò che si vede e ciò che è.
Non sarà dunque un caso che il regista francese abbia inseguito così al lungo questo progetto: un documentario-conversazione con Noam Chomsky, filosofo e linguista statunitense, padre della linguistica generativa, massimo indagatore delle funzioni stesse del linguaggio, dei suoi meccanismi e del suo funzionamento. Il risultato è "Is the man who is tall happy?" eccentrica opera d’animazione, conversazione a due che diventa un videoclip filosofico eccentrico e sicuramente non banale. Accompagnato dal rumore costante della sua vecchia Bolex (una vecchia macchina da presa analogica) la conversazione tra il regista e lo studioso si materializza attraverso una serie di animazioni dal gusto primitivo, tipiche di Gondry, in cui la spartana tecnica che dà vita alle immagini tenta di dar vita (di nuovo: di rappresentare) quanto detto da Chomsky in una serie di incontri. Il risultato è alterno: si va da una scelta didascalica che traduce alla lettera le parole del filosofo a guizzi di fantasia che arricchiscono il discorso. Un discorso, quello del filosofo, di un’altissima pregnanza teorica e tecnica, che tenta di risalire alle origini stesse del linguaggio, che prende una posizione netta, tendente a sfatare molti luoghi comuni sull’argomento.
Le parole di Chomsky volano altissime, tanto che molto spesso il regista fatica a star dietro a tutto (ma lo ammette candidamente, e con la massima onestà: "As you can see, I felt a bit stupid here", confessa il regista). A Gondry interessano gli argomenti che potrebbero avere punti in comune col proprio cinema: la percezione, i meccanismi infantili che regolano l’ingresso dell’essere umano nella dimensione del linguaggio; ma Chomsky si spinge oltre, scava in profondità fino ad arrivare ad una teoria generale del linguaggio (una vera e propria neuroscienza linguistica) e ai suoi legami con la realtà. Il risultato cinematografico è un cartoon psichedelico di altissima filosofia, in cui emerge – al di là del discorso sul linguaggio in sé – la grandezza dell’interlocutore del regista, una lezione di grandissimo impianto prima di tutto etico: partendo dalla rivoluzione scientifica il filosofo insiste sull’importanza del mettere in discussione quei concetti, quegli schemi mentali che sembrano (da buon senso, o forse solo dalla pigrizia) immutabili e non modificabili. L’indagine sul linguaggio è solo all’inizio, e Chomsky è il suo Galileo. La domanda di base è (semplificando al massimo): è il mondo che crea il linguaggio o le cose sono una proiezione del nostro modo di suddividere un continuum che esiste solo perché razionalizzato dal linguaggio? Il parallelo col cinema è calzante, eccome.
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