Interstellar Christopher Nolan
La fantascienza, per statuto, descrive il mondo possibile, realizzabile o anche solo immaginabile; riconsidera l’oggi per traghettarlo nel domani, amplifica i sogni e gli incubi, li immagina realizzati nel futuro. Christopher e Jonathan Nolan (regista e sceneggiatore) lo hanno ben colto e capito, e anzi lo hanno davvero interpretato alla lettera. Interstellar è, in maniera assi inquietante, la descrizione di un mondo possibile, con un’aderenza e rigore scientifico studiato nei minimi dettagli (va da sé, sempre nella loro applicazione al mondo del cinema). Peccato però che a trainare questa monolitica prefigurazione manchi un elemento fondamentale: il cinema.
L’odissea (nello spazio) dell’uomo comune (padre-agricoltore-ingegnere: un uomo che pensa e lavora con le mani, faber e artifex in un mondo esausto che non ha più bisogno di titoli di studio) e della sua impresa (il viaggio intergalattico che dovrà salvare il genere umano condannato all’estinzione su un pianeta senza più risorse, ma per colpa di chi?) rimane avvolto in un grigiore d’immagine (e di immaginazione) che lascia un poco sconcertati, tanta è la disparità tra l’idea e la sua realizzazione. Il viaggio oltre le frontiere del tempo e dello spazio arranca; la luce (il cinema) – nella sua stratosferica velocità – non è mai stata così rallentata, avvolta su se stessa. Non è una questione di grandeur: il film è magniloquente e a tratti perfino barocco, quello che manca rimane l’idea che si fa immagine. La ricerca dello spazio oltre i confini del tempo non si traduce mai in fotogramma (il film è girato in pellicola) che si spinge oltre i confini dell’immagine.
Il paragone con 2001 Odissea nello spazio è sterile e forse neanche necessario (anche se Nolan cerca spesso, e direttamente, il confronto), ma tanto era quello un film d’immagini che cercavano da loro un superamento, uno sconfinamento, una dismisura, tanto questo Interstellar non esce mai dalla propria misurata compostezza, che stride con quanto pretende di narrare. Attenzione, nessuno sta dicendo che entrando in sala ci si aspettava di vedere un nuovo Star Wars o una versione filosofica di I Guardiani della galassia. Non è l’assenza di spettacolarità che è in discussione, bensì la fredda prolissità di una accozzaglia di idee (visive, ma anche di sceneggiatura) che non assolvono al loro scopo. La stessa Ringkomposition se in un certo modo ancora fa l’occhiolino a Kubrick ne desatura la portata teorica trasformandola in un semplice colpo di scena, neanche tanto inaspettato, che fonde le dinamiche di un Doctor Who (neanche tanto ispirato) con il precedente Inception.
Il silenzio dello spazio, quelle atmosfere che avevano fatto grande il primo Alien, è contaminato da un sottofondo musicale gonfio e pesante, assolutamente extradiegetico che sembra messo lì per aiutare – con un’eccessiva dose di pathos – scene altrimenti senza mordente (e qui anche solo l’idea del paragone con Ligeti e Strauss di 2001 diventa davvero sacrilega). Ma al di à di Kubrick il film di Nolan guarda – tra l’altro – ad un altro capolavoro della sci-fi del Novecento, di cui tenta addirittura di ricalcare alcune strutture portanti, e la cosa in alcuni momenti è talmente evidente che è difficile pensare al caso. Si parla, va da sé, di Solaris di Andrej Tarkovskij, che – pensandoci – è forse il vero monolito della fantascienza del secolo scorso (basti pensare a cosa significa questo film per un regista come Lars Von Trier).
L’inizio casalingo e familiare, l’eroe vedovo richiamato per la missione nello spazio, l’esplorazione di pianeti potenzialmente ostili, un futuro-presente poco futuribile, la comunicazione “mistica” con gli altri, fino al “simulacro” finale, ricostruzione di comodo d’una realtà a misura d’uomo, sono tutti elementi che richiamano “la risposta sovietica a 2001 Odissea nello spazio”. Anche in questo caso, però, al di là delle somiglianza esterne, il paragone è solo un esercizio retorico, perché la sostanza è ben diversa e il vero problema non risiede nel fatto che Interstellar somigli a questo o a quel film di fantascienza (anche perché il film di Nolan non regge il confronto neanche con pellicole meno “mitologiche” di quelle succitate: si pensi a Gravity o al bellissimo Moon). Il problema vero è sostanziale: un film di fantascienza che si trasforma in un melò familiar-einsteiniano, che parte iper-scientifico e termina con una pseudo-fenomenologia dell’amore (davvero l’amore basterà a salvarci dall’apocalisse? e pure qui siamo anni luce distanti dalla straziante “corrispondenza d’amorosi sensi” di Solaris). Un film magniloquente ma d’una magniloquenza che non stupisce mai, neanche nei suoi momenti più spettacolari (il pianeta liquido); un fervore poetico che lascia fuori l’immagine e s’affida ad altro (musica, voce off). Insomma, e in breve: un’occasione sprecata.
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