David Bowie 2a Parte: “Il testamento artistico di David Bowie – Il simbolismo di Blackstar e Lazarus”
I N T R O
Partiamo da un presupposto: David Bowie è un classico. Non per le celebrazioni ancora in vita a cui abbiamo assistito, fomentate dalla sua assenza dalle scene iniziata nel 2004, né per i tributi a cui stiamo assistendo a un mese dalla morte. E’ un classico perché, ad esempio, risponde perfettamente a una delle definizioni di “classico” formulate da Italo Calvino [1]: “Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso”.
E’ un classico perché la sua figura di popstar agisce a più livelli: quello musicale, quello testuale, quello estetico e quello del significato. Possiamo dilettarci a tracciare tutte le influenze che, ben miscelate, hanno contribuito alla creazione delle maschere teatrali usate dall’artista per mettere in scena la sua musica. Possiamo parlare dei costumi, delle pose, delle influenze musicali. Arriveremo alla fine con una consapevolezza: il filo che unisce tutte queste trasformazioni è quello dei simboli. David Bowie si definiva un simbolista, interpretava la propria arte come un “dispositivo, un veicolo aperto all’interpretazione delle altre persone”. Concepiva le proprie canzoni come costruzioni. Costruzioni a volte portate avanti nella solitudine con un lavoro ossessivo, oppure in collaborazione con una cerchia ristretta di musicisti e produttori [2].
IL SIMBOLISMO DI BLACKSTAR E LAZARUS
Il rapporto di David Bowie con i simboli è stato sviscerato in libri e articoli, e ha alimentato e continuerà ad alimentare congetture e ipotesi da parte di fan e non. Forse uno dei suoi brani più rappresentativi di questo metodo di composizione è Quicksand, contenuta nell’album “Hunky Dory” del 1971. Quicksand è un excursus trasognato tra la politica del dopoguerra, l’illusione cinematografica, la filosofia di Nietzsche e le teorie occultiste di Aleister Crowley.
La sua escursione nell’occultismo è solo uno dei tanti aspetti della ricerca spirituale di Bowie, che ha toccato il cristianesimo, il buddismo, il satanismo e la cabala. Facciamo un salto in avanti di qualche anno.
Dopo il sacrificio di Ziggy Stardust, arriva il suo personaggio più negativo ed estremo, eppure quello che gli è più rimasto addosso nelle definizioni copia-incolla della carta stampata, il Duca Bianco. The Thin White Duke è la maschera dell’album “Station to Station”, del 1976.
E’ un uomo divorato dalle droghe, cinico, anaffettivo, con simpatie fasciste, un personaggio molto simile a quello generato da Trent Reznor per “The Downward Spiral” (1994). Bowie aveva appena interpretato l’alieno Thomas Jerome Newton nel film “L’uomo che cadde sulla terra”. Station to Station è un manifesto dell’alienazione dell’essere umano. Ad anni di distanza Bowie definì il brano Word on a Wing un grido d’aiuto. Le stazioni a cui si riferisce il titolo dell’album e il brano omonimo sono quelle contenute nell’albero della vita sefirotico, che Bowie sta disegnando in terra nel retrocopertina.
Processi di purificazione e stadi della vita, in un periodo in cui, forse in maniera inconscia, è stato molto vicino alla morte. Tutti i suoi tentativi, anche quelli meno ispirati, sono sempre stati contrassegnati da un uso consapevole e intenzionale dei simboli e delle immagini. Dall’inizio della sua carriera il suo viso era sempre stato presente sulle copertine degli album, a testimoniare il personaggio o la trasformazione alla base della musica in quel momento. E’ quindi qualcosa su cui interrogarsi la scelta fatta per “Blackstar”, il suo album testamento. Qui il suo viso, l’immagine onnipresente, viene sublimato in un simbolo, quello di una stella nera su sfondo bianco (i due colori assoluti). Una stella che si spezzetta in parti e si ricompone nell’immagine più grande.
Un processo di smontaggio della propria immagine che era iniziato nell’album precedente “The Next Day” (2013). Qui la copertina, sempre in bianco e nero, era forse ancora più enigmatica: sullo sfondo la copertina di “Heroes”, con un quadrato bianco ed il titolo del disco stampato sopra. La parola heroes barrata con il pennarello come si fa brutalmente quando si vuole nascondere qualche informazione. E dentro, quadrati neri e bianchi e una sua foto molto cruda, senza manipolazioni grafiche, come a dire “Avete aspettato le mie immagini, vi siete chiesti dove fossi finito, eccomi qui”.
L’utilizzo del videoclip sembra il veicolo principe per poter rappresentare nella maniera più efficace il raggruppamento di simboli utilizzati dall’artista a livello testuale. Una delle prove più riuscite è sicuramente Ashes To Ashes (1980), la cui caratteristica simbolica e surrealista era stata messa in luce anche dallo scrittore inglese J. G. Ballard in un’intervista del 1982 [3].
In Ashes to Ashes c’era una sorta di disillusione nei confronti della mitologia degli uomini spaziali e del protagonista di Space Oddity, il Maggiore Tom, e forse dell’era glam dei lustrini (“lo sapevamo che Major Tom era un tossico… la mamma diceva di finire quello che si inizia, di non incasinarmi con lui”). Gli ultimi video che accompagnano i due estratti dall’ultimo album rappresentano la perfezione formale, la totale aderenza tra l’intenzione del brano e la sua rappresentazione visiva. Sono musica che diventa narrazione cinematografica. In Blackstar e Lazarus, a firma del regista norvegese Bo Johan Renck (nella foto qui su a destra), sono anche presenti numerosi simboli, riferimenti e enigmi lasciati da risolvere.
L’ASTRO NERO, MAJOR TOM E LA VILLA DEL SERPENTE
L’incipit di Blackstar ci introduce in un altro mondo. Un altro pianeta chiamato “Villa of Ormen” dove il Maggiore Tom, con la divisa rattoppata e malconcia è infine atterrato. Una ragazza con la coda si dirige verso l’astronauta. Solleva il casco spaziale e ci rivela quello che già sapevamo: Major Tom è morto, il suo teschio è però intarsiato di metalli e pietre preziose. Il suo interminabile vagare nello spazio ha lasciato così i suoi segni. La ragazza prende il teschio e lo porta verso la candela “al centro di tutto”: una grossa candela con una piccola fiammella che brucia piano. “Villa of Ormen” potrebbe essere un gioco di parole, “the revealer of all men”[4], cioè la morte. Oppure, rifacendosi alla lingua norvegese, ormen è il serpente. Il pianeta sarebbe così la casa del serpente, un animale che viene citato in tutte le tradizioni religiose, passate e presenti. Il serpente è simbolo di ciclicità, autogenesi, trasmutazione della morte in vita. E’ anche simbolo di tutto ciò che non è umano, del mondo sotterraneo e notturno. Ma non necessariamente malvagio come vuole la tradizione cristiana. Nell’antica Grecia aveva poteri come medico e indovino.
La ragazza caudata prosegue la sua processione solitaria con il teschio di Major Tom in una teca. Il resto dello scheletro prende invece il volo, attirato dalla forza dell’imponente eclisse che sovrasta il piccolo pianeta. L’astro nero (blackstar) è l’eclisse stessa. L’oscuramento del sole era antico presagio di sventura, nella tradizione peruviana indicava la morte dell’astro perché malato. L’eclisse ci suggerisce di concentrarci non su quello che vediamo, ma su ciò che non vediamo: la luce. David Bowie appare infatti con gli occhi bendati, al posto degli occhi due bottoni neri, come si usa fare per rattoppare i pupazzi. E’ accompagnato da ballerini che si muovono caoticamente, ad un certo punto sembrano incontrarsi in un movimento, poi rincominciano il ballo epilettico, attirati anche loro dall’arrivo di Major Tom. Il brano arriva alla seconda parte, Bowie canta: “è successo qualcosa il giorno in cui è morto, il suo spirito si è sollevato di un metro, qualcuno ha preso il suo posto e ha urlato coraggiosamente “sono un astro nero”.
La consapevolezza della fine è totale e disarmante, e tutto il dolore che si porta con sé: “non ti so dire perché, seguimi, prendi i sedativi, bu!, nasciamo al contrario”. I gesti di Bowie sono chiari: sberleffi, smorfie, pernacchie: la morte sembra uno scherzo, una farsa. Questa è forse la consapevolezza ultima, la rivelazione della verità attraverso il verbo: il libro dell’astro nero che Bowie tiene in mano e mostra agli astanti. Ritorna alla mente un verso di Quicksand, “knowledge comes with death release” (la conoscenza arriva lasciando andare la morte). Una volta raggiunta la conoscenza, il rito finisce di compiersi. Nella terza parte il teschio viene retto da una figura femminile che rimanda all’antico Egitto. Il rito si compie, la regina egizia posa il teschio di Major Tom sulle spalle di una delle ragazze. Una creatura strisciante, indecifrabile, spaventosa si avvicina ai poveri cristi spaventapasseri crocifissi in un campo, che sembrano aspettare solo il giorno dell’esecuzione.
LAZZARO
Quando arriviamo a Lazarus, il gioco di rimandi negli specchi sembra infinito. Bowie sceglie di non apparire in televisione per presentare il brano al Late Show di Stephen Colbert. Ha scelto un attore, Michael C. Hall (Dexter, Six Feet Under), perché Lazarus non è solo un brano del disco, ma è anche il titolo di un musical programma al New York Theatre Workshop dal 7 dicembre al 19 gennaio, con interprete principale proprio Hall, anche dei brani musicali. Il musical immagina il continuo della storia di Thomas Jerome Newton, il protagonista de “L’uomo che cadde sulla terra”, e la sua permanenza sulla terra. E’ stato scritto da Bowie con collaborazione con Enda Walsh, e ha in scaletta 15 brani selezionati dal repertorio di Bowie. Anche questo un progetto sviluppato nel riserbo assoluto, e annunciato solamente a pochi giorni dal debutto. Il video di Lazarus è il proseguimento di Blackstar. Abbiamo la stessa ambientazione e la presenza degli stessi elementi. Alla fine di Blackstar, alla conclusione del rito delle sacerdotesse, abbiamo visto la regina egizia posare sulla schiena di una delle ragazze il teschio incastonato di gioielli.
La stessa ragazza è presente in Lazarus. La vediamo sotto al letto che sembra quello di un vecchio ospedale. Il teschio invece è appoggiato sullo scrittoio, come nell’iconografia delle nature morte del seicento che rappresentano la vanitas, il tema della caducità della vita. La ragazza esce dall’armadio, in un angolo della stanza, Bowie è steso sul letto, con la benda e i bottoni che gli fanno da occhi. La ragazza che aspetta, prima sotto il letto, poi davanti, il teschio sulla scrivania: tutti elementi che simboleggiano lo scorrere inarrestabile di un tempo che ormai sembra contato. Bowie si affretta a scrivere qualcosa sul suo taccuino. Pensa, cerca di fare presto. La ragazza si accuccia, con un’espressione minacciosa. Lo vediamo con una tuta a strisce, simile a quella indossata nel periodo di Station to Station.
Ritorna la simbologia dell’albero della vita: esso può rappresentare un cammino di discesa lungo il quale le creature assumono la loro forma attuale, ma è anche un cammino di risalita, una via per tornare al “grembo del Creatore” [5]. Il percorso è quello di liberazione dalla sofferenza, dalla ragazza sotto il letto che rappresenta la malattia. “In questo modo, o in nessun altro. Sarò libero, proprio come quell’uccello azzurro”: Bowie indietreggia verso l’armadio, fino ad entrarci. E’ il suo percorso di risalita.
Note
[1] - Italo Calvino, Perchè leggere i classici
[2] “Let me say that my songs are a construction; it’s very rare that they inherently have a particularly deep ‘meaning’. Or if they do, it’s a very personal thing which I wouldn’t expect other people to perceive or understand. That’s not why I write songs. I like the idea that they’re vehicles for other people to interpret or use as they will. It’s a device. That’s what I do with songs, with art generally. Yes I have an interest in how an artist works, but I don’t need to know what it’s ‘about’. I’m quite capable of reading the ciphers and symbols for myself.”
Intervista su UNCUT
[3] - “[…] Sembra uno spezzone di un film surrealista. Bowie è un Pierrot, un clown da circo col collare plissettato. E c’è un bulldozer – detto così sembra una stronzata, ma colpisce!”.
Intervista Re-Search, Shake Edizioni, 1994
[4] - The Guardian: "the Villa of Ormen"
[5] - Cabala: "Albero della vita"
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