Mark Kozelek, Ben Boye, Jim White MARK KOZELEK WITH BEN BOYE AND JIM WHITE
[Uscita: 6/10/2017]
Stati Uniti
Gli oltre 14 minuti a titolo Topo Gigio potrebbero, comprensibilmente, già destare i primi sorrisetti ironici. Come quegli sconosciuti che vi avvicinano alla fermata del bus e cominciano imperterriti a raccontarvi la loro vita Mark Kozelek rischia di diventare caricatura di se stesso. Questa volta i compagni di viaggio sono Jim White (batterista dei Dirty Three) e il pianista Ben Boye (già con Ryley Walker e Bonnie "Prince" Billy, oltre che collaboratore dei Sun Kil Moon), i quali provvedono a un soffice, fluidissimo, affascinante tappeto di jazz-folk intimo e minimalista. Tanto che, per la cronaca, questa volta la collaborazione ha davvero una ragione d’essere musicale, anzi sonora ed empatica. Certo che la protagonista rimane l’ostinazione dell’autore nel trovare una formula efficace per questo suo “raccontar cantando”; che è poi “talking folk”, un perenne monologo generalista ed elastico abbastanza da appoggiarsi a qualunque soundscape sia a portata di mano, che siano i bordoni di Justin Broadkirk (in “Jesu”), il 'sad country' dei Red House Painters o i loop di Steve Shelley (in “Common as Light...”).
Con questo "Mark Kozelek with Ben Boye and Jim White" Mark almeno si garantisce il suono live di una session senza troppa struttura, senza troppe prove, in cui l’interplay libero ed estemporaneo restituisce quell’idea importante di sincerità e naturalezza. Come una vecchia jam di Ornette Coleman con David Izenzon e Charles Moffett, in cui il cantante prende il posto del sax alto e si libera di ogni ritornello e strofa per esporre, come narratore interno, il suo punto di vista sulle piccole, piccolissime cose della vita, nella forma consueta di un verboso free folk. Il mood è da autunno fumoso, un “late night show” per ombre notturne col volto ben nascosto nel bavero del cappotto. Il Tom Waits rimuginante di “Nighthawks At The Diner”, privato di tutto lo swing e l’ironia. Perchè ormai la conclamata logorrea di Kozelek ha del patologico, una necessità e un’urgenza di esprimersi, di parlare, di raccontare che oggi non ha pari: 10 tracce, un’ora e mezza di musica sempre solo voce-piano-batteria. Un bianco e nero ininterrotto ma granitico, che ritrova squarci della suadente estraniazione di “April”, senza sfuggire a quella bolla autonoma, perfettamente a-temporale, impermeabile, in cui Mark si ostina a rinchiudersi. E che forse è la sua vera cifra stilistica e l’eredità che ci sta lasciando. Di grazia, il sound e la sperimentazione sono sufficienti a salvare le sorti dell’ennesima opera imponente, ben prodotta, e fieramente personale. Non priva di fascino.
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