Solo gli amanti sopravvivono Jim Jarmusch
I vampiri di Jarmusch, nel suo ultimo film "Solo gli amanti sopravvivono", sono gli ultimi dandy; sono gli ultimi artisti. Isolati, scontrosi, colti, lontani dalla massa inerte degli "altri". Moderni perché non succhiano più il sangue mietendo vittime innocenti ("fa tanto XVI secolo"), sono una comunità sotterranea fiera della conservazione d’una purezza che il mondo sembra aver dimenticato. Una Detroit spettrale, e splendidamente fotografata, fa da sfondo alla vicenda, una bohème ctonia e notturna, che non riesce a non guardare (con adorazione) al passato. La metafora è fin troppo chiara, le mitologie ben definite. L’arte ci mette ben poco a diventare spirito arty, copia sbiadita delle culture (underground, ma non solo) che il regista ha frequentato fin dai suoi primi vagiti artistici newyorkesi. Ma dal mito alla moda il passo è breve, e dalla moda alla banalità il salto diventa quasi automatico.
Lo sguardo di Jarmusch sembra regredire a livello adolescenziale, o da giovane studente d’arte cresciuto a pane e avanguardie che ricerca e venera i propri miti, in cui però il massimo della profondità non scalfisce la bidimensionalità d’un poster o d’un ritratto appeso ad una parete, o di qualche sagace battuta che gioca con l’anacronismo. Già, perché alla fine i nomi son sempre gli stessi, quel canone underground/decadente che, immutato, ormai ci trasciniamo dietro da troppo tempo. E sì, in fondo quello è il mondo in cui il regista (e non solo lui) si è formato, ma – ci chiediamo – non sarebbe ormai il tempo di storicizzarlo seriamente? Di strapparlo, insomma, da una mitologia che ormai sa di stantio, e che rischia di appiattire tutto in una mescolanza spesso disarticolata in cui l’anacronismo si fonde con uno sguardo forse fuori luogo e fuori tempo? I vampiri di Jarmusch sono una comunità d’artisti (diciamolo pure, un’élite) contenti del loro isolamento e altezzosamente distaccati dagli "zombie", le persone comuni, estranee a quella cittadella riservata a pochi e che non comprendono il mondo "altro" (e soprattutto "alto") degli esteti (ma la filmografia di Romero, si pensi a "Land of the dead", ci ha insegnato quale e quanta è la forza rivoluzionaria di questa massa, e quanto le turres eburneae non siano sempre al sicuro).
Tom Hiddleston e Tilda Swinton interpretano (assai bene, specie la seconda) due clichè delineati secondo tratti superficiali; Mia Wasikowska tenta di riportare un po’ di vitalità in una vicenda altrimenti ingessata, ma non ci riesce fino in fondo. Insomma, la figura del vampiro, abusata ma ancora assai interessante, è calata in un contesto simbolico che non riesce a sollevarsi dalla propria autoreferenzialità. Questi vampiri, ultimo rigurgito d’un modernismo in disperata via di rianimazione, e ormai inevitabilmente ombelicale, si nutrono più che di sangue di luoghi comuni, del loro stesso autocompiacimento. I protagonisti riempiono valigie di libri e suonano musica snobisticamente analogica e vintage (c’è anche spazio per una sorta di pellegrinaggio nella casa di Jack White) e le pur intriganti note del liuto di Jozef Van Wissem (sodale musicale del regista in due dischi molto belli) non bastano a riportare le immagini a quella purezza cercata e mai raggiunta. Questi vecchi/nuovi vampiri si rifugiano in luoghi ammantati di fascino e mitologia letteraria (l’infelice scelta di una Tangeri burroughsiana è il massimo dello snobismo e dell'ostentazione aprioristica del démodé), o in un manicheismo che in molti casi si dimostra insopportabilmente immotivato (noi vs. loro, artisti vs. zombie, analogico vs. digitale). Jarmusch tenta di dimostrare l’esistenza di un cinema della purezza (di sangue?), autentico, incorrotto, che però si rivela, oltre che assolutamente facile, intellettualistico (se non intellettualoide) e – passi il termine orrendo – radical-chic; e questa ricerca d’autenticità rischia di diventare nient'altro che disprezzo di classe.
È come se il regista si sentisse in dovere di difendere ciò che è stato, e il mondo da cui proviene, ma il tutto (se pure può essere giustificato) ha tanto il sapore di una excusatio non petita. E se "The limits of control", suo penultimo film (da noi inedito) ci aveva stupito per la sua radicale noncuranza nello sciogliere i nodi che accumulava, questo "Solo gli amanti sopravvivono" ha tutto il sapore della restaurazione, della conservazione (un film più emo che indie ci verrebbe da dire, con facile metafora musical-giovanilistica, e con lo spettro di "Twilight" dietro l’angolo), una difesa d’ufficio d’un modernismo stantio che non può non sapere di vecchio. Il risultato è quello dell'ennesima conservazione dei modelli animata da spirito apocalittico, di un ristabilimento dell’aura aristocratica dell’artista (se ne sentiva davvero il bisogno?), della sacralità e centralità dell’arte (sempre "alta", ipercolta, di nicchia) e d’un maledettismo decadente e annacquato (che somiglia più alla tronfia comicità involontaria di un D’Annunzio letto in superficie che allo spleen baudeleriano); insomma il film tenta di ricostruire quegli altari(ni) culturali che pensavamo ormai di aver storicizzato e metabolizzato, al di là del mito.
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