Tom Petty & The Heartbreakers HYPNOTIC EYE: IL RITORNO DEL ROCKER DI GAINESVILLE
INTRO
Non si può certo accusare il biondo di Gainesville (Florida) di saturare il mercato visto che tra questo nuovo "Hypnotic Eye" ed il precedente "Mojo" sono trascorsi ben tre anni. Nel mezzo c’è stata la bella tournée che lo ha visto di ritorno sui palchi del Vecchio Continente con tappa anche in Italia, a Lucca, per un concerto indimenticabile. Ovviamente era accompagnato dai fidi Heartbreakers che consideriamo la miglior backing band del pianeta. A chi è stato attento alle uscite discografiche fisiche e digitali non saranno sfuggiti due bellissimi live: il primo era apparso come disco aggiunto all’edizione de luxe di Mojo (e in vinile ma in versione ridotta per il Records Store Day del 2011, intitolato "Kiss My Amps") e il secondo, "Live 2013", come download offerto in omaggio agli iscritti al Fan Club. Presi assieme rappresentano la naturale estensione dei cinque dischi dello spettacolare boxone che è "The Live Anthology" del 2009, anche per via delle poche sovrapposizioni coi titoli di quella straordinaria raccolta. Nel caso siate stati distratti vi consigliiamo di rovistare un po’ tra le offerte della rete e tra i titoli economici perché con una minima spesa delizierete le vostre orecchie con versioni eccellenti di brani autografi (Two Gunslingers acustica!) e belle cover di classici altrui; tra queste una fantastica Willin’ (Little Feat) e una imperdibile (I'm Not Your) Steppin' Stone (Monkees) resa come se gli Heartbreakers avessero sempre e solo suonato garage. Anche dal punto di vista puramente audiofilo i due Live suonano una meraviglia.
HYPNOTIC EYE
Saremmo felicissimi se potessimo descrivere Hypnotic Eye come un nuovo capolavoro. Meglio sgombrare il campo da facili illusioni: non lo è. Per trovare l’ultimo a nome Tom Petty bisogna tornare indietro di vent’anni esatti, a quel "Wildflower" che appartiene di diritto a quella categoria e che verrà presto opportunamente rimasterizzato e ampliato. Attenzione però, Hypnotic Eye non è affatto un brutto disco, risultando di fatto superiore a quasi tutti i lavori a suo nome apparsi negli anni 2000. Lo è di certo nei confronti di "The Last DJ" dove le canzoni già abbastanza povere erano anche appesantite da pesanti drappi orchestrali; lo è di certo rispetto ad "Highway Companion" disco di transizione a tutti gli effetti anche se con qualche buona canzone al suo interno. Non lo è però rispetto a Mojo, anche se di sicuro la maggior concisione gli gioca a favore: quarantacinque minuti secchi, come una volta e come dovrebbero durare i dischi. L’album è prodotto da Tom Petty, Mike Campbell e Ryan Ulyate già responsabili di Mojo e dei Live di cui sopra. Ragionando in termini di facciate di album, la prima è davvero eccellente, magari non perfetta ma godibilissima per scrittura e sequenza di brani, e anche alcune canzoni della seconda si fanno apprezzare.
Ma partiamo dalle cose che non funzionano: il rock-blues che caratterizzava e appesantiva il lavoro precedente, e che si sperava rimanesse lì confinato, tracima invece anche in questo nuovo disco: troviamo sia un genere che si addice poco al suono degli Heartbrteakers, probabilmente un facile ripiego quando l’ispirazione latita. Nulla di terribile sia chiaro, in giro c’è ben di peggio: Burnt Out Town dove sembra di sentire John Lee Hooker (nonostante il gran lavoro di Benmont Tench al piano e Scott Thurston all’armonica) e la conclusiva Shadow People. Anche la power-ballad Power Drunk ha poco di attraente. Il resto è quasi tutto notevole e come dicevamo, la sequenza del primo lato è favolosa. Si comincia con il rock dai toni hard di American Dream Plan B, brano tipicamente alla Tom Petty con chitarra, basso e pianoforte a sventagliare nello stile di You Wreck Me e I Don’t Wanna Fight. Segue Fault Lines che è una bella cavalcata pop-psychedelica, con un bellissimo interplay di chitarre e percussioni proprio a metà brano. Red River è forse il vertice del disco e fosse apparsa in passato su classici come “Damn The Torpedoes” e “Hard Promises” avrebbe fatto la sua bella figura. Questo è il Petty che preferiamo, quello che va a braccetto coi Byrds e i Creedence, che si libra in alto più leggero dell’aria innamorato perso del suono di quelle Rickenbecker.
Full Grown Boy è la ballata dai jazzati profumi notturni che ti aspetti esattamente in quel punto del disco e che puntualmente arriva. Una delizia giocata su pochi accordi di una semi-acustica accompagnata dal pianoforte di Tench che ricama, finché entra Campbell che ci mette del suo con eleganti tocchi alla solista. Meravigliosa. All You Can Carry, che in qualcosa ricorda quel grande brano che è Mary Jane Last Dance, chiude un ottimo primo lato. Girando il disco si incontra il risultato concreto della ricerca delle radici del rock’n’roll di cui si è letto nei comunicati stampa che hanno preceduto l’uscita del disco: si intitola Forgotten Man e porta nel suo genoma il Bo Diddley sound di Mona e grosse porzioni di Chuck Berry e Carl Perkins. C’è ancora spazio per un altro lento, anche se Sins Of My Youth pur essendo carina è un gradino sotto a sua sorella del primo lato, e per il divertente rockaccio U Get Me High. Anni fa, in Learning To Fly Tom Petty diceva che stava imparando a volare ma che era senza ali e scendere sarebbe stata la parte più dura. Abbiamo l’impressione che un paio di ali le abbia in qualche modo recuperate, visto che a 63 anni è ancora lassù che si libra in tutta libertà e di scendere pare non ne abbia nessuna intenzione.
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