Renaissance Una lunga, ardua ‘rinascita’
Le bands, si sa, sono mutevoli. Non è mai facile andare d’accordo e portare avanti in modo compatto un progetto musicale comune. Così gli appassionati di musica che seguono con una certa attenzione le vicende dei loro beniamini avranno notato più di una volta che gruppi musicali dalla lunga storia spesso hanno da un album all’altro tanti e tali cambi di formazione da arrivare al punto che a portare la bandiera alla fine si ritrova un esercito di soli subentrati, senza più nessuno dei fondatori. Gli esempi che si potrebbero fare sono parecchi, dal rock’n’roll granitico dei Thin Lizzy al complesso jazz-rock sperimentale dei Soft Machine, nati addirittura come gruppo di psychedelia vicina al beat e poi evolutosi in tutt’altra direzione. Quanto descritto è quasi la routine, ma probabilmente c’è una sola band al mondo il cui nome è stato letteralmente “ereditato”, da una formazione a un’altra, completamente diversa, dopo due soli album: sono i Renaissance. Partiamo dagli Yardbirds: in questa band hanno militato alcuni tra i chitarristi migliori di tutti i tempi, da Jeff Beck, a Eric Clapton, a Jimmy Page, che addirittura quando ha fondato i Led Zeppelin meditava inizialmente di chiamarli The New Yardbirds, in nome della continuità. Ma tra tanti personaggi di così alta caratura ha militato anche un chitarrista/lead singer/armonicista magari meno blasonato negli anni, ma straordinariamente valido: si chiamava Keith Relf.
LA PRIMA INCARNAZIONE: LE PRIME DUE OPERE - GLI 'ILLUSION'
Nel 1969, allo scioglimento degli Yardbirds, Keith Relf porta con sé il batterista Jim McCarthy e insieme fondano una band acustica, i Together, che dura molto poco ma si evolve in un interessante progetto chiamato Renaissance. Completano la formazione la cantante Jane Relf, sorella di Keith, il bassista Louis Cennamo e il tastierista John Hawken. Fin dal nome scelto, Renaissance appunto, emerge tra le righe un sincero amore per il Rinascimento italiano e per certa cultura classica. Questa caratteristica li fa entrare immediatamente nel grande calderone del progressive rock, che si stava imponendo in Gran Bretagna con il suo stile unico, complesso, ricercato e un po’ eccessivo. Ma agli albori del prog-rock, prima che il genere, come accade a ogni genere, diventasse clichè e si adagiasse sui suoi stereotipi, ogni band aveva una sua personalità ben precisa e differente dalle altre. Così nei Renaissance troviamo, è vero, solide basi classiche, ma senza il virtuosismo esibito di Keith Emerson, prima con i Nice e poi con Lake & Palmer, senza i crescendo drammatici che caratterizzeranno, ad esempio, i primi tre album dei King Crimson in diversi momenti; il classicismo dei Renaissance sussurrato, delicato, deve più a Erik Satie o a Debussy che a quelle opere di Brahms o di Stravinskij citate dagli Yes. La line-up dei Renaissance è quasi totalmente acustica, non ci sono gli artifizi elettronici che molte band dell’epoca scoprivano ed esploravano con molta passione. Alla fine, se si dovesse cercare un metro di paragone con i Renaissance, l’elemento dominante sarebbe il folk irlandese. Le armonie vocali dei fratelli Relf (spesso canta più lui di lei) evocano quelle di Simon & Garfunkel, o a tratti persino vocalizzi da musical, più che le complesse strutture costruite su canoni dei fratelli Shulman nei Gentle Giant. Però spesso il folk irlandese è solare, frizzante, ballabile; altre volte è struggente e melanconico. I Renaissance percorrono una terza via: sembra che ci sia sempre qualcosa di angosciante, tra le righe.
Qualcosa di non detto e di volontariamente irrisolto, lasciato in sospeso proprio grazie al ricorrere a quelle soluzioni armoniche così lontane dal folk, ora classicheggianti, ora persino mutuate dal jazz da questi musicisti ineccepibili tecnicamente. Questo stupefacente eclettismo partorisce prima di tutto due mirabili suite, dove moduli di musica classica, romantica e jazz si amalgamano naturalmente, seguendo senza forzatura alcuna una fluentissima ispirazione armonica, attraverso le ardite scorribande - a volte splendidamente sincronizzate - del basso di Louis Cennamo e del pianoforte acustico di John Hawken: Bullet (11:27) e Kings And Queens (10:59), ricche di chiaroscuri cromatici magnetici, di up and down ed anfratti sonori misterici: si potrebbe addirittura azzardare il nome dei Renaissance tra i primi numi tutelari di certo dark-prog; si ascoltino a riguardo gli ultimi tre minuti di Bullet con le voci spettrali di Keith e Jane alla deriva in un 'nulla' spazio temporale. Non sono da meno le altre sezioni dell'album, Innocence, Island, Wanderer, tutte prodighe anche di splendidi refrain melodici vocali, su tutti quello carismaticamente poetico di Kings And Queens. Solo sporadicamente affiorano ectoplasmi Yardbirds, come nel breve ma seducente solo dell'armonica di Keith Relf in Bullet, e più in generale nel suo approccio vocale blues. Queste sono le coordinate del primo omonimo album, un capolavoro insomma senza mezzi termini il cui fascino oscuro e puro resiste senza colpo ferire ancor oggi all'usura del tempo.
Dal successivo “Illusion”, del 1971, iniziano a succedere troppe cose nella vita dei cinque musicisti. La composizione viene aperta a numerose (forse eccessive) collaborazioni, compresa la poetessa Betty Thatcher per i testi e il chitarrista Michael Dunford. Lo stile rimane quello dell’album precedente, ma sembra che la band non sappia bene che strada prendere. Nondimeno è in evidenza un'ennesima lunga suite, Past Orbits Of Dust (14:38), affascinante ma meno ispirata delle due del primo album, messa a punto con le medesime loro coordinate: suggestivi spezzoni sonori carichi di una sospensione a tratti inquietante intervallati da misteriosi arcani silenzi. Da ricordare anche Golden Thread (8:05), Mr.Pine (6:55) e Face Of Yesterday (6:03). Nonostante questa valida seconda prova crescono comunque le tensioni in seno alla band, e la formazione si sfalda. Nel frattempo il validissimo John Hawken entra negli Strawbs, un’altra band a cavallo tra folk e prog che in quanto a tastieristi non ha mai avuto problemi a sfoggiare il meglio sulla piazza: prima di Hawken, infatti, vi avevano militato Rick Wakeman (che poi andrà negli Yes) e Blue Weaver che, tra le diverse collaborazioni, suonerà anche nell’album “Berlin” di Lou Reed.
Così, tra liti e discussioni, McCarthy si arrende per primo, Keith Relf e Louis Cennamo fondano gli Armageddon e i Renaissance vengono dati per sciolti. Anche una tragedia, di lì a breve, si abbatterà sulla band: il biondo Relf il 14 Maggio1976, durante i preparativi di un concerto degli Armageddon, resterà fulminato in un corto-circuito del suo amplificatore mentre sta regolando i suoni. Tuttavia Jim McCarthy, Jane Relf, Louis Cennamo e John Hawken non demordono ed alla metà dei '70 con gli Illusion (band che mutua il nome dal secondo album dei Renaissance del 1971) riannodano, senza Keith Relf, i fili del discorso Renaissance, con il chitarrista John Knightsbridge ed il batterista Eddie McNeil. Due gli album a loro nome: l'omonimo del 1976 ed il bellissimo "Out of the Mist" del 1977, con la ripresa del brano Face of Yesterday di McCarthy, che insieme a John Hawken firma tutto il materiale del disco: notevoli Candles Are Burning, Isadora, Solo Flight, Everywhere You Go. Un disco "Out of the Mist" ispirato e gradevolissimo che non può essere vittima dell'oblio, e che vi sollecitiamo a recuperare. Un terzo album in gestazione soccomberà per dispute creative in seno alla band, dovute anche all'atmosfera decisamente ostile per il progressive rock maturata sotto i colpi devastanti del maglio intollerante della nascente scena punk anglosassone. I demos delle sessions di questi dischi vedranno la luce solo negli anni '90, e saranno gli ultimi - e per questo importanti - con la presenza in studio dello sfortunato Keith Relf. Attenzione: gli album del terzo millennio a nome Illusion che troverete elencati da qualche parte (AllMusic ...) dopo Out Of the Mist non hanno assolutamente nulla a che fare con gli artisti e la qualità sopraffina dei due dischi suddetti.
LA SECONDA REINCARNAZIONE: UNA BAND TUTTA NUOVA, IL GIGANTISMO PROGRESSIVE
Ma ecco che accade l’inaspettato: Michael Dunford, chitarrista che in fondo nei Renaissance aveva offerto un contributo marginale come ospite del secondo album, prende in mano le redini della situazione e i Renaissance, con questo stesso nome, diventano tutta un’altra band. Accanto a lui, chitarrista e cantante come il suo defunto predecessore, ancora una volta una cantante donna, Annie Haslam, dalla voce limpida e cristallina, quasi sopranile, molto attenta alla tecnica nei suoi vocalizzi sempre privi di sbavature. Il bassista/cantante Jon Camp costruisce intricate linee che ricordano da vicino quelle di Chris Squire degli Yes, il tastierista John Tout è di profonda formazione classica e il batterista Terence Sullivan arricchisce il suono con vivaci coloriture affidate a una gamma pressocchè smisurata di percussioni intonate, da quelle orchestrali (vibrafono, marimba, campane) a quelle etniche (gamelan, glockenspiel, kalimba). Il loro debutto, del 1972, si intitola “Prologue” e il titolo sta già ad indicare che non siamo di fronte a un proseguimento, ma al primo capitolo di una storia tutta nuova. La sterzata verso il prog più barocco e magniloquente è massiccia, a cominciare dal fatto che da lì in poi tutti i dischi della band fino al 1978 saranno arrangiati con la presenza di un’orchestra sinfonica che affianca la band. Ora sì che l’influenza dei compositori russi, da Stravinskij a Moussorgskij, si fa più decisa nel sound della band. E non solo nel sound, considerando che nel corso degli album troveremo titoli di brani come Kiev, o Mother Russia.
La più diretta parentela con i Renaissance che furono sta forse solo nella scelta di Dunford e Tout di rinunciare a strumentazione elettrica ed elettronica in favore del suono “puro”. Il momento più affine agli standard prog rock dell’epoca è la suite Rajah Khan, che vede ospite Francis Monkman, tastierista dei Curved Air e, tra fine ’70 e primi ’80, degli Sky. A nostro avviso Monkman è uno dei musicisti più sopravvalutati di tutta la storia del prog-rock e, in effetti, anche il suo apporto a Rajah Khan è pressocchè nullo, limitato ad un’effettistica pseudo-rumorista generata dal sintetizzatore VCS3. Dopo i pur ottimi album “Ashes Are burning” (1973) e “Turn of the cards” (1974) - con brani cardine della loro produzione come Can You Understand, Carpet Of The Sun, Ashes Are Burning nel primo e Mother Russia nel secondo - i Renaissance raggiungono l’apice della loro carriera e del loro estro compositivo con “Scheherazade and other stories” (1975). La suite Song of Scheherazade, quasi totalmente strumentale tolti brevi momenti vocali di Annie nella parte centrale e sul finale, occupa l’intero lato B del vinile, come era in voga all’epoca, ed include complesse riletture da Rimskij-Korsakov (autore caro anche al Keith Emerson dei Nice e degli ELP). La perfetta fotografia del loro momento di gigantismo è data dall’album “Live at the Carnegie Hall” del 1976, che raccoglie il meglio della band in splendide performances, doverosamente accompagnata dall’orchestra. Molti anni dopo questo disco uscirà anche ristampato in due CD separati e acquistabili singolarmente, con i titoli di “Live at the Carnegie Hall” Vol. I e Vol. II.
Dal ’77 in poi il fenomeno prog passa di moda, viene quasi dimenticato, eppure è proprio in questo momento che i Renaissance, forse saturi di tanta magniloquenza, forse desiderosi di un approccio più diretto e immediato, pubblicano due tra i loro album più deliziosi: “Novella” (1977) e “A song for all season” (1978), ingiustamente poco capiti e troppo snobbati da un pubblico forse stufo ed annoiato. Due piccole ma fantastiche perle che meritavano ben di più. Addirittura, nel 1979, esce un album di cui nemmeno certi fans si ricordano l’esistenza: si intitola “Azure d’Or” ed è qualcosa di completamente diverso da tutti gli altri! L’orchestra sparisce, le chitarre tornano a essere elettriche e, anzi, il bassista Camp diventa quasi un secondo chitarrista che costruisce pregevoli intrecci, tanto acustici quanto elettrici, con Dunford. Solenni partiture orchestrali vengono stavolta eseguite da un numero enorme di tastiere, tutte suonate da John Tout e riportate una per una con orgoglio nelle note di copertina del disco. Le canzoni, cinque per ciascuna facciata, sono brevi e caratterizzate da un fantastico impatto melodico, ma non perdono nei loro momenti strumentali la ricercatezza del vecchio prog-rock. Da molte di esse vengono tratti anche dei video, per lo più filmati molto semplici e tutti uguali, con la band in sala prove o in giro per le città inglesi. Un album a torto dimenticato, trascurato nella discografia della band, che a nostro parere invece rappresenta uno dei suoi momenti più fulgidi. Vale davvero la pena riscoprirlo, o scoprirlo!
GLI ANNI '80 E '90: IL DECLINO
Negli anni ’80 la band si lascia inebriare dalla moda imperante dell’electro-pop e pubblica due album scadenti, “Camera camera” (1981) e “Time-line” (1983) nei quali persino Annie Haslam non sembra più lei, ma una sorta di inspiegabile imitazione, con qualche stridulo vocalizzo, delle voci spigolose alla Nina Hagen che andavano per la maggiore all’epoca, mentre le ritmiche si fanno a tratti quasi ska. Dei Renaissance ormai resta proprio solo il nome. Negli anni ’90 varie case discografiche sfruttano il ricordo dei bei tempi andati per fare uscire valanghe di raccolte antologiche e registrazioni di concerti del periodo d’oro. Ma soprattutto si verifica l’evento che definitivamente devasta la band: una brusca rottura tra i due personaggi più significativi, Annie Haslam e Michael Dunford. Nessuno dei due può più usare il nome, così, con il più classico degli escamotage, il chitarrista dà vita ai Michael Dunford’s Renaissance, e pubblica del materiale poco interessante, tra cui degli album in cui rivisita in chiave totalmente acustica, molto scarna ed intimista, i classici della band con una cantante che non è neanche l’ombra né di Annie Haslam, né di Jane Relf. La Haslam, da parte sua, realizza degli album solisti, presta la sua voce a numerosi album-tributo ad altre bands regalandoci prestazioni di indimenticabile bellezza (ascoltare le sue straordinarie riletture di Ripples dei Genesis e di Wonderous Stories degli Yes, per credere!) e, nel 2008, collabora come ospite a un EP dei Magenta, band di new progressive rock inglese guidata dalla eccellente vocalist Christina Booth, che ha sempre citato i Renaissance come massimi numi tutelari.
LA DOPPIA RINASCITA DEL TERZO MILLENNIO
Con l’inizio del nuovo millennio però accade un piccolo miracolo: c’è una prima riappacificazione di Dunford e la Haslam, che nel 2000 pubblicano un album di materiale inedito. Il titolo è l’ennesimo atto d’amore verso la cultura classica italiana: “Tuscany”. La band è fortemente rimaneggiata ma è decisamente valida e accanto ai due leader troneggia dietro le tastiere un grandissimo del prog-rock come Mickey Simmonds, già collaboratore di Mike Oldfield, Camel e Fish. Le atmosfere sono quelle degli album dei tardi ’70, da “Novella” ad “Azure d’Or”, con un prog diretto ma ricercato e molto delicato nelle atmosfere, la voce di Annie torna a farsi dolcissima, calda e avvolgente, lontana dalla ricerca del sovracuto degli anni ‘80. Dopo un mini-tour, però, Annie raffredda gli entusiasmi dei fans con una doccia gelata, annunciando che la band si scioglie in via definitiva, per non riunirsi mai più. E invece i miracoli possono anche accadere due volte: nel 2012 Annie Haslam e Michael Dunford annunciano ufficialmente in maniera congiunta che stanno per tornare ancora a collaborare sotto la bandiera dei Renaissance, e che hanno pronti un album nuovo e un tour. L’album esce e, sotto la falsariga di “Tuscany” di 12 anni prima, porge ancora omaggio all’Italia con un bislacco titolo in un italiano maccheronico, “Grandine il Vento (presumibilmente intendevano dire "La grandine ed il Vento”). Purtroppo anche le tragedie possono accadere due volte e, così come ci aveva già lasciato Keith Relf, alla fine del 2012 Michael Dunford muore improvvisamente per un attacco cardiaco nel sonno. Il futuro della band ora è ancora tutto da scrivere ma, qualsiasi cosa succeda, senza lo strumentista più significativo nella storia e nello stile dei Renaissance, le cose non potranno più essere le stesse.
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