Blessed Child Opera THE DARKEST SEA
Inutile tergiversare: i Blessed Child Opera sono Paolo Messere che canta (in ottimo inglese), suona le chitarre, scrive tutti i brani e produce questo sesto album del gruppo campano. Come in altri casi del genere ci si può domandare perché un valido “cantautore” senta il bisogno di trincerarsi dietro il nickname di una band, ma non è questo il punto della nostra recensione. “The Darkest sea” si snoda attraverso dieci brani di assolute integrità e linearità, diretti e senza i cascami di arrangiamenti pretenziosi e ridondanti. Brani secchi e avvolgenti con atmosfere dark e suoni corposi senza concessioni ad allegorie danzerecce. I had removed everything il brano che apre l’album, pur con sonorità diverse ricorda il David Bowie di un disco bello e oscuro come “Outside”, e la voce scura e profonda di Messere ben si sposa con l’amalgama degli strumenti come del resto in tutte le altre canzoni.
Anche i Cure vengono in mente nelle parti strumentali diMisunderstood e nell’intro saltellante di You can’t teach me howto change my life, mentre A lazy shot in the belly ha lontani echi dei Radiohead più introversi. Finito il gioco dei rimandi e delle citazioni resta questa manciata di ottime canzoni. In the morning tra le migliori del lotto, Blindfold, dal finale trascinato e compulso che dal vivo deve assumere forma di catarsi, I look at you dove il leader imbraccia un banjo sghimbescio e spettrale che asseconda il suo recitar cantando, la più ritmicamente ariosa Friends faraway che vede alla batteria l’ospite Matteo Anelli e la conclusiva December wind degno finale di un album unitario e compatto. Paolo Messere spalleggiato ottimamente da Carmelo Amenta (basso e chitarre) e da Marco Scirè alla batteria, dà un’ottima prova di songwriting chitarristico qua e là spruzzato di effetti elettronici mai fini a se stessi e ben integrati nell’economia sonora della band realizzando un disco scuro come il mare del titolo, ma non triste o cupo, riflettente, probabilmente, stati d’animo emotivamente sentiti e sicuramente “pensati”. Un disco non canzonettistico, dove ritornelli e facili armonie sono banditi e dimenticati a fronte di un andamento rigoroso e quasi ostico, cosa che potrebbe essere un difetto, ma perché no, anche una qualità.
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