Zanne Festival 2014 – 2a Edizione Zanne Festival 2014 18 -20 Luglio 2014, Catania, Parco Gioeni
Lo Zanne Festival, tenutosi a Catania dal 18 al 20 luglio del 2014, e organizzato dalla meritoria associazione culturale “Kizmiaz”, alla sua seconda edizione, non è da annoverare soltanto tra i più validi festival rock della Sicilia e contestualmente della Penisola, cosa assodata, ma è anche un contesto nel quale si dispiegano numerose altre iniziative. Dalle lezioni gratuite di chitarra per i bambini, alle sedute di yoga, all’esposizione, in appositi stands, di prodotti biologici e dell’artigianato. Inoltre, non manca la finalità benefica, con una parte del ricavato degli abbonamenti destinata all’Unicef. E veniamo alla musica, asse portante dell’intera kermèsse, di tale qualità da ascrivere lo Zanne, insieme all’Ypsigrock di Castelbuono (Pa), al gotha delle rassegne italiche dedicate al rock e dintorni. Già l’anno scorso, il palinsesto prevedeva concerti di gruppi rimarchevoli, se non di vere e proprie leggende, come i temibili Swans di Michael Gira o i Jon Spencer Blues Explosion. Quest’anno, il programma è stato rimpinguato vieppiù con formazioni di rinomato livello artistico e spalmato su tre serate, stavolta consecutive, dal tema stilistico alquanto variegato.
18 Luglio: Toy, Blonde Redhead
Ad aprire la prima serata, venerdì 18 luglio, il quintetto londinese dei Toy, titolare di due lavori sulla lunga distanza, “Toy” e “Join The dots”. Una miscela di sonorità di matrice shoegaze con ammiccamenti a staffilate psichedeliche e punteggiature di space-rock sparse entro il tessuto dei brani, con Tom Dougall e Dominic O’Dair in bella evidenza. Un concerto accattivante che, tuttavia, pur suscitando l’entusiasmo dei giovanissimi, non convince del tutto in ordine a originalità e freschezza del dettato, troppo stereotipato, invero. Ben altro spessore artistico attinge, d’altro canto, l’esibizione dei Blonde Redhead, a seguire. La band italo-nipponica dei fratelli Pace e dell’aliena giapponese Kazu Makino, a suo tempo scoperta e lanciata da Steve Shelley dei leggendari Sonic Youth, presenta in anteprima uno squarcio significativo del nuovo album che vedrà la luce in settembre e che recherà il titolo di “Barragàn”, dal nome del celeberrimo architetto messicano Luis Barragàn, tra i maggiori esponenti di questa disciplina del secolo XX.
Sin dalle prime note, il livello qualitativo s’innalza fino ad assurgere a vette notevolissime. Il suono è pastoso e solido, i tempi di gestione dei momenti più sincopati e quelli più sostenuti a livello ritmico sono perfetti. I fratelli Pace sanno il fatto loro, giunti a una maturazione artistica invidiabile, e la voce allucinata di Kazu vibra pugnalate nei padiglioni auricolari degli astanti. Il suo frenetico e frammentato movimento sul palco, la rassomiglia a una di quelle eroine maledette scaturite dalla penna morbosa di William Gibson. Il culmine del concerto si tocca non appena il trio intesse le note di Messenger, brano splendido del quale esiste anche una formidabile versione col grande David Sylvian alla voce. Un concerto strepitoso che consacra, ove ve ne fosse bisogno, la band come una delle più incisive e intriganti dell’intero panorama rock mondiale.
19 Luglio: Dirty Beaches, Dark Horses, Clinic, Black Rebel Motorcycle Club
La serata di sabato 19 luglio, la più intensa in ordine di palinsesto, prevede l’opening di Dirty Beaches, pseudonimo di Alex Zhang Hungtai, canadese di origini taiwanesi, con già all’attivo cinque album. Una miscela sonora di avanguardia e di electronics, sulla scia dei mitici Suicide di Alan Vega e Martin Rev, senza, ovviamente, la forza distruttiva e geniale di questi, ma con un approccio assolutamente dignitoso, seppur senza picchi di eccessiva qualità, che si dispiega nella mezz’ora di concerto concessagli. A seguire, provenienti dalle terre d’Albione, Brighton, i robusti Dark Horses, guidati dalla vocalista Lisa Elle. Concerto interessante ma coi chiari segni del deja vu. Troppi a nostro avviso, divoratori di pane e rock’n’roll dalla tenera età, i gruppi che rimasticano temi cari alla new wave e allo shoegaze in genere (con qualche rinvio velvettiano, nel caso dei Nostri) che vengono osannati da folle di giovanissimi senza le adeguate basi culturali e storiche per poter consapevolmente ravvisare il discrimine tra la pienezza dell’originalità e il debole calco del remake.
E in ogni caso, concerto gradevole che ha un succoso fuoriprogramma, ovvero una session col cantante e leader dei Black Rebel Motorcycle Club, Robert Turner, che chiuderanno la serata: e il livello s’innalza repentinamente e fatalmente, essendo Robert un autentico animale da palcoscenico, come si vedrà nel concerto finale della sua band. Clamoroso, invece, il concerto degli inglesi Clinic, subito dopo. Il quartetto di Liverpool, guidato da Adrian Blackburn, con all’attivo già ben otto prove sulla lunga distanza, pur rientrando a pieno titolo tra quelle formazioni che recuperano stilemi del passato, in specie il post-punk robotico dei Fall, o quello forgiato nelle tetre acciaierie di Sheffield negli anni Ottanta, Clock Dva degli esordi, Cabaret Voltaire, rimodellano, invece, quei suoni con una tale personalità e intensa maturità espressiva da immettervi alcunché di profondamente personale. Una cascata di metallo liquido, ma presto raggelato in forme di plumbea gravezza, ai limiti di un’angoscia sonora di taglio espressionistico.
Notevole anche il loro impatto “estetico” sul palco, con camici e mascherine da chirurghi, ad aggiungere pennellate ancor più fosche al quadro generale, di per sé già inquietante. Grandissimi. A chiudere l’intensa serata, i già citati Black Rebel Motorcycle Club. A incendiare la platea, stordita dalle algide atmosfere dei Clinic, ci pensano proprio loro, i tre ragazzacci californiani, con, oltre a Robert, Peter Hayes, e Leah Shapiro alla batteria. Il terzetto sciorina una miscellanea di sonorità oscillanti tra il rock dei primordi, il blues polveroso dei deserti californiani, il country più eteredosso e sbilenco. I primi pezzi sono forgiati nel fulmicotone, e Robert, in rigorosa tenuta da motociclista, con tanto di giubba di pelle, ad onta dei quaranta gradi dell’estuosa notte etnea, s’impossessa della scena da autentico e indiscutibile leader. Meno efficace, a nostro avviso, la parte centrale del concerto, nella quale i Nostri si dilungano in ballate dai ritmi sincopati e ai limiti della deliquescenza, con la Shapiro che arranca come smarrita entro la selva delle sue “pelli”. Il finale è ancora di gran livello, il ritmo s’innalza fino al parossismo conclusivo, per un concerto di assoluto livello.
20 Luglio: Lead To Gold, Skip Skip Ben Ben, Calexico,
La terza e ultima serata, quella del 20 luglio, s’apre con un tassello sonoro dei Lead To Gold, gruppo italiano formato da emozionati e volenterosi ragazzi che hanno vinto una sorta di contest tra diverse band, che è loro valso il diritto di aprire l’ultima tranche del festival. Di seguito, l’esibizione degli Skip Skip Ben Ben, formazione della scena indie taiwanese, latori di sonorità noise-gaze degne di miglior causa. Ad onta della buona reputazione che li accompagnava, e sulla scorta dei due album realizzati, la loro performance ci è parsa alquanto deludente, un coacervo di suoni accozzati maldestramente, con la cantante in perenne modalità “screaming cat”. Li dimenticheremo senza alcun rimorso di coscienza. Ed eccoci al gran finale, con i gloriosi Calexico. Chi ha nelle trombe d’Eustachio, ancora oggi, il sontuoso e variegato tappeto sonoro di “ The Black Light”, si aspetta mirabilie dal proteiforme combo guidato dagli indomiti Joey Burns e John Convertino.
Quei suoni mirifici sospesi tra rock, psichedelia, tex-mex, blues desertico, stilema morriconiano, abbiamo appurato, non ci sono più. O sono celati dietro le pieghe di una musica da ballo, certo suonata con la consueta, estrema classe dei nostri eroi, ma che ha perso nettamente lo smalto dei tempi migliori. Un concerto comunque godibile, con largo uso, più che in passato, di fiati, in specie trombe mariachi, e un cantato quasi esclusivamente ispanizzante, centro-americano. E, soprattutto, suoni istiganti alla danza, con gran piacere dei numerosi astanti, specie delle fasce anagraficamente più verdi. Nulla quaestio: vedere dal vivo un gruppo che ha scritto pagine gloriose nella storia del rock recente è sempre un godimento, specie poi, quando in pieno delirio messicaneggiante, non ti spuntano, quasi sortendo dal nulla, due cover impensabili in un simile contesto: Love Will Tear Us Apart dei Joy Division e Big Mouth Strikes Again degli Smiths! Curiosità di una torrida notte ai piedi dell’Etna. In conclusione, e sia detto convintamente, una grande rassegna, quella organizzata dai ragazzi dell’associazione culturale “Kizmiaz”, cui va il nostro sincero plauso per aver riportato, con passione, intelligenza e abnegazione, il grande rock in una terra nella quale l’eccellenza qualitativa dovrebbe essere il canone quotidiano e non la sia pur virtuosa eccezione. Alla prossima.
Correlati →
Commenti →