Amorphis UNDER THE RED CLOUD
[Uscita: 04/09/2015]
Finlandia
Bisogna realmente produrre un notevole forzo alla fine dell’ascolto di “Under The Red Cloud”, dodicesimo LP dei finlandesi Amorphis; bisogna sforzarsi di non usare il più grande tra gli aggettivi dequalificanti: carino. Eppure stavolta dalla produzione e dalle orecchie fatate di Jens Bogren non scaturisce che una piccola graziosa cineseria finnica. A nulla può l’ingresso dell’ex Opeth Martin Lopez alle percussioni o le trappole sonore architettate dalla tastiera di Santeri Kallio disseminate alla rinfusa tra un arpeggio e l’altro: tutto appare ancora squisitamente carino. Eppure tutto, dal precedente “Circle” al compimento concomitante dei 25 anni di attività della osannata band, veramente tutto spingeva verso il sano allontanamento dal delizioso.
Già l’ascolto dell’iniziale titletrack preoccupa non poco per l’uso ammiccante della voce di Tomi Joutsen, istrionicamente in bilico tra clean e growl. Non ci si sbaglia: le cose non migliorano col passare del tempo e delle composizioni. La successiva Dark Path è un succedaneo per musicofili della domenica di una composizione progressive/death molto attenta alle armonie medioevali. Pensavamo di aver definitivamente lasciato da parte il torneo cavalleresco ma l’intro al flauto di Tree of Ages ci catapulta in un mondo raccapricciante da rivisitazione storica di paese ad uso turistico nella quale più che in singolar tenzone ci si sfida alla salsiccia più lunga.
Eppure raccontata in questo modo più che una carineria il disco apparirebbe una imboscata all’ascoltatore. Ed infatti vi è anche una altra storia da raccontare ed è quella di notevoli musicisti che riescono a proporre con “The Four wise Ones” un saggio di ciò che negli anni ’90 li rese celebri in tutta Europa, potenza e tecnica. Anche qui la creatività non è di casa ma in alcune occasioni non è richiesta la novità ma la presenza.
White Night riesce sulle stesse coordinate a distinguersi per assenza di qualità particolari tanto che i nostri sono costretti ad inserire l’elemento esotico, la voce femminile di Aleah Stanbridge.
Stesso discorso potremmo fare per il primo singolo scelto, Sacrifice, con la fondamentale differenza che la linea vocale - easy ma non scontata - e la potenza della chitarra di Esa Holopainen cingono di rose l’assenza di idee. The Skull è invece un ottimo esempio di occasione mancata, l’intreccio tra chitarre e tastiera funziona, come anche l’intreccio di tempi e atmosfere diverse, il problema è che tutto sembra estemporaneo e mai elaborato sino in fondo.
Le idee musicali sono solo presentate e mai pensate sino alla loro estenuazione, come se in fase compositiva alcune cose siano state tirate un po’ via perché nel frattempo si stava bruciando l’arrosto nel forno. Discorso a parte va fatto per Bad Blood nel quale senza alcuna ombra di dubbio si comprende perché per quattro lustri molti di noi hanno deciso di permettere a codesti esseri umani di potersi acquistare un pollo che brucerà nel forno acquistando i loro dischi. Lo abbiamo fatto perché l’impasto ruvido di chitarre e tastiere che secerne note di una epicità altera e drammatica ancora non si trova altrove.
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