Gravenhurst THE GHOST IN DAYLIGHT
[Uscita: 30/04/2012]
Gravenhurst è lo pseudonimo del timido bristoliano Nick Talbot, polistrumentista con una preferenza per il fingerpicking e le ballate acustiche, dalla voce filiforme. Erano cinque anni che era scomparso dai radar, a prova di una prolificità piuttosto scarsa. A sentir lui, più che la scrittura della musica, gli porta via del gran tempo il processo creativo dei testi, che lima instancabilmente con la massima pignoleria fino ad ottenere l'effetto voluto. Che, in sostanza, ha parecchio a che fare con la sua fascinazione per i film horror e i serial killers, quindi gli argomenti non sono particolarmente allegri, così come non lo è l'intero album, improntato ad una specie di folk nebbioso e rarefatto, per la maggior parte acustico ma sempre imbevuto di effetti ambientali ed elettronici, come lo “stile Warp” richiede.
Fatta una menzione d'onore per la bella copertina, assai appropriata al clima dell'opera, un intrico di ponti e viadotti, rigorosamente nei toni del grigio, con sullo sfondo un altrettanto grigio “skyline” di grattacieli nella bruma, passiamo in rassegna i lati buoni e quelli meno del disco. Le prime due canzoni sono un ottimo biglietto da visita: Circadian, con il suo arpeggio circolare e il crescendo che porta verso un finale attraversato dalle sciabolate di una chitarra elettrica “psych”, e The Prize, scelta come singolo, con un ritornello dal coro irresistibile e, ancora, un finale in crescendo a base di archi. La seguente Fitzrovia è una lunghissima ballata (otto minuti abbondanti) dalle atmosfere estremamente dilatate, con un tappeto di effetti, una chitarra acustica al minimo sindacale e la voce sussurrata di Nick. Credo che verso il terzo minuto ci si sarebbe potuti anche avviare alla conclusione.
Segue l'acustica In Miniature, un po' “Simon & Garfunkel style”, poi due episodi totalmente elettronici, con la breve Carousel che introduce un altro dei pezzi forti dell'album, Islands, una lunga cavalcata tra il post-rock e il trip hop bristoliano, con una batteria elettronica scheletrica a sostenere il giro dilatato delle tastiere. Bella. The Foundry, poi, con il gelido intro adeguatamente industriale, che sfocia rapidamente in una ballata dal tono folk, attraversata in sottofondo da un tocco di batteria elettronica e da feedback vari. Poi un breve strumentale, Peacock, prima di un altro dei capisaldi del disco, la ballata tra il folk e la psichedelia The Ghost Of Saint Paul. Si chiude con Three Fires, non indimenticabile. Insomma, un lavoro con alti e bassi, a volte notevole, ma non certo il migliore del nostro Nick.
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