Luke Haines NEW YORK IN THE ’70s
[Uscita: 24/05/2014]
Già, com’era New York negli anni settanta? Un po’ l’antitesi alla Frisco della summer of love, o meglio il suo lato oscuro, fatto di club fumosi e cantine e di una musica che invece di volare sulle utopie lisergiche della West Coast, affondava nella nevrosi metropolitana e negli oscuri meandri della dipendenza dalle droghe, alla marijuana e all’LSD della costa occidentale nella Big Apple si preferivano anfetamine ed eroina. La musica che ne scaturì era la naturale espressione di incubi e angosce metropolitane, all’arcobaleno di colori evocati dai californiani qui corrisponde un cupo bianco e nero. A quell’atmosfera e a quella scena rende omaggio Luke Haines, già leader di band quali The Auteurs, Baader-Meinhof e Black Box Recorder, concludendo così una trilogia che con i precedenti “Nine And A Half Psychedelic Meditations On British Wrestling Of The 1970s And Early ‘80s” e “Rock And Roll' Animals” fa i conti con la ‘sua’ musica del passato. E lo fa con un album ricco di amore per la scena evocata che lui rilegge secondo il suo occhio, come lui stesso l’ha definito il disco è «a mythic re-imagining of the New York rock and roll scene 1972-1979», dodici tracce, per 35 minuti di musica, dedicate ai protagonisti di quella scena, da David Johansen dei New York Dolls, a Jim Carroll, da Sun Ra a Burroughs a Richard Hell a Tom Verlaine, anche se i due numi tutelari intorno a cui tutto sembra girare sono senz’altro Alan Vega e Lou Reed, alle cui atmosfere sembrano ispirarsi maggiormente le musiche di Haines.
Luke Haines si conferma ottimo scrittore di canzoni, tremendamente infettive, entrano dentro e non si riesce a scrollarsele di dosso. La tecnica è molto semplice e si fonda sulla ripetizione di frasi o parole su una base di velvettiani riff chitarristici acidi o giri di synth dal forte potere stordente. Una canzone come Lou Reed è costruita ad esempio tutta quasi esclusivamente sulla ripetizione del nome del leader dei Velvet, forse non la canzone più bella del disco, ma certo la più irresistibile; lo stesso vale per Jim Carroll o per Alan Vega Says. Ma per comprendere appieno le sfumature di questo prezioso lavoro è necessario prestare attenzione anche ai testi del musicista inglese, ricchi di richiami a personaggi e situazioni del periodo evocato, e non privi, oltre che di autentico amore e passione, anche di uno sguardo che sa essere ironicamente distaccato. Qualche esempio: « Alan Vega says it’s going to be a great big hit/ if Alan Vega says so, then it probably is » o «Everybody’s gay or bisexual/ a man called Jim getting experimental », per concludere con l’accorato mantra di Dolls Forever il cui testo è sostanzialmente costituito sull’invocazione Shalom Shalom seguita da nomi e luoghi che resero indimenticabile quel decennio newyorkese ricco di eccessi e paranoie, e di straordinaria creatività artistica.
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