Makhno THE THIRD SEASON
[Uscita: 15/03/2015]
#consigliatodadistorsioni
Provando a chiedersi perché proprio ‘la terza stagione’, quale possa essere il senso ultimo di questa scelta, alla luce del complesso e tortuoso cammino compiuto da un musicista che milita nel cono d’ombra della musica underground fin dai primissimi ‘80 e che procede con una coerenza quasi disarmante, di certo partire dalla semiotica del Cerambyx cerdo della strepitosa copertina, può aiutare solo relativamente. Questo coleottero impiega ben tre anni per passare dalla fase di larva a quella di pupa e resta nella fase adulta per non più di un mese, ma lasciamolo momentaneamente da parte per ritornarci ex post. Immaginiamo "The Third Season" come un cerchio che si chiude, una rivalutazione più consapevole e matura del proprio inizio o il suo contrario, l'annientamento del tutto, il 'nulla iperreale' ritrovato. Il noise elettrificato, destrutturato e contratto che Paolo Cantù ci ha trasmesso con la sua ultima ragione sociale, Makhno, di cui "Silo Thinking" (2013) è stato il portentoso inizio, sembra voler essere un approfondimento concettuale e sottilmente metaforico di ciò che i Tasaday avevano iniziato ad esplorare più di trent’anni fa ma catapultato con ferocia dentro ai nostri giorni. Quell’inesprimibile che voleva tradurre l’alienazione e lo smarrimento del post moderno: l’uomo involuto in una bestialità sconosciuta al senso armonico della natura; trova ora mimiche più contorte e rabbiose, meno aleatorie e più perversamente carnali per fuoriuscire. Quel silenzio intraducibile è diventato stridore di frammenti industriali, esalazione sulfurea quasi irrespirabile e fastidiosa, tribalismo invasato. Cantù procede in solitaria, coriaceo e ostinato, allestendo un oscuro cabaret di indolenza e intensità tanto affine a smorfie di dolore quanto ad un rigetto violento, sfumando tutte le linee di confine delle modalità e dei generi, muovendosi in un labile confine di crudo cripticismo.
Il disco si apre con The book of the year che riprende la cinematica contorta, impellente e sincopata del primo capitolo, tra rumorismi in overdub e assalti frontali di percussioni. Per non mai dimenticarmi rimane sospesa in una magmatica tensione nervosa in cui le note graffianti della chitarra sembrano voler lacerare la spessa coltre di densità emotiva. I dream I saw Mark P last night ha un incedere pachidermico e ansiogeno, ancora una volta mette in campo, in una sgranatura iperbolica e grezza, l'alternanza funambolica primitivismo - futurismo. Dissonanze avant impro, barbarie e passione, alimentano il calderone di un non metabolizzato che riaffiora tracimando in tutta la sua informe, lirica, mostruosità. Cannibalizza, in una sorta di gnosi esistenzialista personalista, ogni volontà mediatica, ogni sinuosità musicale, questa costruzione musicale tesa e rabbiosa, riprende le fila della repellenza sposata dal Pop Group (del quale, non a caso, Makhno ci ha offerto una credibile cover di She's Beyond Good and Evil, insieme a Hysm?Duo) ma proprio in ragione di questo va a toccare corde emozionali recondite di indignazione silente, qualcosa che ribolle nell'inconscio: Avevo cose da dire, Die gedanken sind frei. Un irrisolto che non implode più tra le pieghe dell'anima ma esplode con veemenza e lascia segni indelebili sulla pelle. E qui si ritorna alla Cerambice iniziale che, del suo scavare incessante, delle sue fatiche sotterranee, reca segni indelebili nella sua corazza nera inscalfibile, nelle sue lunghissime quanto fragili antenne. Un affacciarsi alla vita per tesserne l'inno disperato e beffardo di disprezzo e gratitudine (Do not let the olive branch fall from my hand e soprattutto Nobody knows you when you're down and out).
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