Blessed Child Opera THE DEVIL AND THE GHOST DISSOLVED
[Uscita: 21/11/2015]
#consigliatodadistorsioni
Blessed Child Opera, progetto varato dal polistrumentista e cantante Paolo Messere (nel 2001, in meno di quindici anni di attività ha già partorito ben sette album, più o meno con la cadenza di un disco ogni due o tre anni al massimo.
In questo settimo titolo, “The Devil and the ghost dissolved”, Messere (nella foto sotto a destra) sovraincide quasi la totalità delle parti vocali e strumentali (chitarre, tastiere, basso), affidandosi esclusivamente al supporto ritmico della batteria di Matteo Dossena e alla bellissima voce di Valeria Sorce che, peraltro, è anche ideatrice della elegante veste grafica dell’album. Questo disco è come una stanza buia: fa quasi paura al primo impatto, ma nel momento in cui ci si entra dentro, ci si fa avvolgere, ecco che pian piano se ne iniziano a scorgere i contorni, le sfumature, si colgono i dettagli, se ne respira il profumo, finché ci si ritrova rapiti e da questo buio non si vorrebbe più uscire.
Un album denso, cupo, lento, emotivamente coinvolgente: chitarrismo minimale, trame post-rock, echi di new wave, occasionali sfumature shoegaze, inaspettate aperture jingle-jungle e psichedeliche di più ampio respiro (There’s too much noise) e quei bellissimi interventi vocali femminili che danno un vago sapore '80 al tutto, tra una Siouxsie dal timbro meno “scuro” e, al contrario, una Liz Fraser meno “fiabesca” (We can’t be rivals of God). A proposito di Liz, non si può non pensare alle atmosfere dei Cocteau Twins ascoltando il valzerone melanconico I’m gonna wait my love.
Ascoltando in cuffia il brano Mother, nel finale affidato soltanto al piano e alla chitarra si percepiscono delle lontanissime voci in sottofondo. Sarà un effetto voluto o saranno rientrate per caso nel range di ripresa dei microfoni? In ogni caso contribuiscono ad alimentare quella vena misteriosa, da stanza buia di cui si diceva all’inizio. La vena creativa di Messere, dopo sette dischi all’attivo, è ancora limpida e fresca, trasmette veramente l’idea di un disco fatto con l’anima, non certo di un’opera di routine, come succede a molti artisti dopo il quarto o il quinto album. Un progetto che ha ancora molto da dire e che, come spesso avviene in Italia, con un curriculum di questa portata (pensiamo solo alle collaborazioni passate dell’autore con i francesi Ulan Bator o alle menzioni nei libri che parlano di post-rock) meriterebbe ben maggiore visibilità.
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