Umberto Maria Giardini FORMA MENTIS
[Uscita: 22/02/2019]
Chi pensava che con Moltheni si fosse chiusa una esperienza musicale prima ancora che esistenziale dovrà fare i conti con questo esuberante “Forma Mentis” nel quale si mescolano le venature eteroclite del celebre timbro di casa Umberto Maria Giardini. Ciò che avvampa principalmente in questo suo ultimo lavoro è la capacità di usare le chitarre come strumenti della memoria capaci di scandagliare il presente. Di fiori e di burro è l’esempio principe di un uso all’arma bianca delle note chitarristiche capaci di vivisezionare l’animo e le miserie umane. Attitudine che emerge con audacia deflagrante anche nella aggressività di I Miei Panni sporchi capace di toccare punte di tragicità doom e se proprio mi si chiedesse un nome pronuncerei la K dei Kyuss. Uno degli aspetti che maggiormente affascinano l’ascoltatore non privo di riferimenti nella ormai consistente discografia giardiniana – quattordici album, otto come Moltheni, uno con i Pineda, uno con gli Stella Maris – è la consistenza rocciosa del suono che a volte sembra ispirare citazioni, come gli Audioslave di Materia Nera oppure snocciolare perfette coclidi di stampo UMG in La Tua Conchiglia, nel suo incastro preciso senz’altro una delle prove più riuscite dell’intero lavoro.
Le chitarre si diceva, e quell’umore umbratile della provincia italiana degli anni novanta che aveva trovato interpreti altissimi nei cosiddetti indipendenti Verdena e Afterhours; chitarra e pessimismo volano l’uno dell’altra in un crescendo compositivo che culmina nel banchetto finale di Forma Mentis, la quale accanto alla partecipazione pregevole di Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) vede esplodere tutti i temi sin qui descritti in un bozzetto cupo e autosufficiente. Non che escano dalla penna di UMG distillati di capolavoro, ma un equilibrio e una forza perfetti nella loro intangibile rotondità; non che manchino, allo stesso modo, colpi a vuoto come i cliché melodici spremuti sino all’ultima nota da Luce, nel suo complesso il disco non è solo godibilissimo, ma marchiato da quei lampi che squarciano il silenzio e illuminano retrospettivamente tutto l’ascolto degni delle prove maggiori di ogni artista. La estrema godibilità del disco non nasconde la difficoltà dell’ascolto che qui e lì emerge a segnalare una sofferta vicenda compositiva, o almeno il rimuginìo costante del dubbio, capace di consegnare a tutto il lavoro la persistente fragranza rock, la leggerezza dei giorni di festa e la opprimente caligine della sconfitta. Per chi ama le sinestesie si potrebbe dire che il disco suona come l’esordio letterario di Giovanni Arpino con quel titolo bello e sorprendente che per questa ragione resta tra le righe. Come la bellezza di questo disco.
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