Father Murphy CROCE
[Uscita: 17/03/2015]
#consigliatodadistorsioni
Scarni, chiesastici, sepolcrali. Il percorso di espiazione dei Father Murphy si è arenato su una landa di deserta solitudine dove lo smarrimento deve poter uscire dalla propria chiusura introspettiva e compiere quella catarsi necessaria a far intravedere una luce, una rinascita, la fine di un percorso e l’inizio di uno nuovo. "Croce" è l’apice, è l’approdo finale. Intorno l’abisso nero di pece o la concreta volontà di effettuare un volo, uno stacco che elevi a nuove prospettive. Dopo l’abbandono della batteria e con essa, si potrebbe aggiungere, del personale apporto estetico di un artista eclettico come Vittorio Demarin, il duo ha viaggiato all’unisono, puntando moltissimo sulla tensione atmosferica, su un’esasperazione emotiva indotta da sonorità tirate, minimali, sempre più spastiche e sempre più secche. In pratica la parte strumentale ha via via assunto un ruolo di sonorizzazione, di continuum, in grado di accompagnare il montare ansiogeno implacabile o, semplicemente, è diventata flusso, riverbero, sibilo, amplificazione sensoriale del cerimoniale lugubre imbandito. Le voci a loro volta hanno supplito questa voluta atrofizzazione, contribuendo nell’imponente articolazione/materializzazione tattile e cinematica dei loro allestimenti criptici e inquietanti; capaci di suggerire oppressione e angoscia, e soprattutto, un senso di attesa inquisitorio.
In questo vicolo cieco non c’è spazio per nessun arabesco melodico o armonico (era il caso delle precedenti vie di fuga rappresentate dalla batteria che arieggiavano e strutturavano i singoli pezzi). La sottile linea direzionale segue una logica che va montata e costruita attraverso lentissimi crescendo di inatteso, con stratificazioni scomposte, a volte ossessive e a volte dolorosamente distorte, lente, deformate negli effetti timbrici. Un lavoro cerebrale di sincronie davvero oscure e davvero sottilmente perverse. Blood is thicker than water inaugura il percorso destabilizzante con un gioco di voci che si rincorrono, sovrapponendosi e poi facendosi eco in un sottofondo di tremuli accordi di organo e metallici colpi percussivi. A purpose con i martellamenti ritmici di strumenti primitivi e improvvisati, oltre a ricordarci i chiodi dell’immolazione, sembra una danza invasata per esorcizzare la paura, impossibile non pensare ai Faust. Si entra così in una fase di narrativa musicale davvero intensa, So this is permanent, il dolore, il sacrificio, l’attesa. In solitude, l’agonia resa con asprissimi graffi di cetra ed effetti; Long May We continue, la consegna. All the people yelling fire, la deposizione, We walk by faith, la contrizione (gioco di vocalizzi e fiati, stridori di corde). Lascia davvero attoniti invece l’ultimo brano, They wont hurt you, che ci ipnotizza con un organo a canne che sembra volersi librare in un inno di lode ed invece si trascina pesantemente su toni bassi e intasati, come a voler scavare un solco sulla carne viva. Una coltre nera soavemente adagiata su un tempo inanimato, dilatato, liquefatto. Dopo la Croce la risurrezione, ma il tempo dell’attesa non è ancora compiuto.
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