Wire CHANGE BECOMES US
[Uscita: 25/03/2013]
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Il grandissimo potenziale di questa band è sicuramente quello di essere continuamente riusciti a non ripetersi. Qualcosa che va oltre l’essere degli innovatori. Gli Wire usano la musica come una pasta modellante a cui di volta in volta far assumere forma e consistenza diversa ed hanno dalla loro una immaginazione dilagante, una inquietudine ispirativa mai affievolita e soprattutto un senso dell’estetica raffinatissimo. Si muovono a loro agio sia nella sperimentazione più estemporanea che nel cesellare con maniacalità e purismo assoluto l’essenza cristallina ed eterea della perfetta melodia pop. Sono attivi dal 1976, hanno scaldato le serate del Roxy alla fine degli anni ’70, hanno attraversato epoche di incredibili cambiamenti di mode e generi musicali, eppure sembrano collocarsi in un oltre indefinito, in una dimensione che sovrasta la catalogazione o che la rende immediatamente desueta se applicata al loro caso.
Escludendo le numerose raccolte, live, EP e antologie “Change Becomes Us” è il loro tredicesimo lavoro da studio sulla lunga distanza. In formazione il trio ormai consolidato Newman, Graham Lewis e Robert Grey con l'aggiunta del chitarrista Matt Simms. Il frontman Colin Newman ha affermato che una parte del materiale proviene da alcuni abbozzi live degli anni ’79-’80 rimasti assolutamente irripetuti e adeguatamente rielaborati. Vogliamo pensare che il rimando tempistico a questo periodo non sia un’abile mossa promozionale. L’impressione più immediata che si avverte ascoltando il disco, e tenendo nella dovuta considerazione la parabola frastagliatissima delle inclinazioni di volta in volta emerse, è quella di una maggiore incisione della strumentazione classica di chitarra, basso e batteria sui ricami elettronici che diventano quasi sottolineature, leggeri e acquatili inserti. Un abbandono delle linee di minimalismo scarno e rarefatto, delle proverbiali dilatazioni, a favore di una ritmica più energica che però nulla toglie alla costruzione di atmosfere delicate, al loro lirismo onirico screziato di psichedelia a colori freddi.
Per riassumere vi si coglie più l’irruenza arty e astratta di “Pink Flag” piuttosto che l’ombrosità chiesastica di “Chairs Missing”, volendo assumere a paragone due loro opere seminali. Ma, d’altro canto, dopo oltre sette lustri di esperienza, questa non può che apparire la virata più sana e più equilibrata che gli si possa chiedere. Con i dovuti distinguo che quando si parla di Wire non devono mai darsi per scontati: le scansioni ondivaghe, le eco metallurgiche e le folate siderali di Attractive Space culminano nello stesso amalgama sferragliante di Men 2nd (ndA). Si riprendono in parte i calibratissimi equilibri e le levigature di “154” ma con un calcolo più sottile e con qualche sbavatura nell’uniformità complessiva dei tredici pezzi. Rispetto all’ultimo “Red Barked Tree” (2011) abbandonano le sinuosità soporifere per un maggior vigore armonico ma di fatto rompono definitivamente gli agganci con quel sublime EP che ne aveva segnato il ritorno in scena nel 2002 “Read & Burn”, più legato alla concezione avanguardistica dell’ex componente Gilbert, alla sua predilezione per l’elettronica glaciale e per gli affreschi marziali e stilizzati.
Molte le aperture luminose a quel ‘dugga’ inaugurato dalla canzone Drill, un dance pop pseudo funk, sincopato e nervoso che, chissà perché, in più di un episodio mi rimanda ai primi Feelies. Love Bends, Magic Bullets, Stealth of a Stork: effluvi troppo sgargianti per poter rendere davvero credibili i passaggi più tenebrosi, quelli che rimandano ai solenni e affascinanti crepuscoli dark. B/W Silence, & Much Besides sembrano essere tra le più riuscite in questa direzione. Poi ci sono le spezzature nette, le infinitesimali sfaccettature di quei Wire inconfondibili quanto mai uguali a se stessi: sorprende il suono corposo di Adore Your Island che trasfigura in una lievità multicolore e finisce per degenerare in un muro sonoro incontenibile che con altrettanta velocità si dilata e si ricompone nell’uniformità della linea di basso. In questo pezzo vengono sublimate le loro molteplici anime fatte di corposità punk, eleganza umbratile e rarefatta, sperimentazioni curate. L’eloquente Re-Invent Your Second Wheel con dei meravigliosi vortici stomp di chitarre effettate e glaciali tocchi di tastiera. Keep Exhaling attinge dalla liquidità di A Touching Display e sembra volerla rianimare al defibrillatore. Sottigliezze, l’imperativo continua sempre ad essere: altro giro, altra corsa. Gli Wire non ritornano mai. Semplicemente sono dentro. Appartengono al divenire. Hanno sempre il loro asso nella manica da sfoderare con la loro classe innata.
ROMINA BALDONI
Voto: 7/10
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La notizia di un nuovo album degli Wire è sempre foriera di musica di altissima qualità: è straordinario come questi sopravvissuti della primissimo english punk ’70 abbiano attraversato più di tre decadi di vita artistica, esplorando sino in fondo le grandissime potenzialità - trascendenti il punk tout-court - che mesmericamente emanavano i loro primi tre grandissimi album di fine anni ’70, “Pink Flag” (1977), “Chairs Missing” (1978), “154” (1979): consigliamo a tutti senza riserve di riscoprirli o scoprirli, per non perdersi colpevolmente uno dei capitoli più creativi e meno ortodossi di quegli anni ribelli ed oltraggiosi. A parte fisiologici cali di ispirazione e qualche - dignitoso - occasionale flirt con il mainstream techno-dance (“Manscape”, 1990, “The First Letter”, 1991 come Wir, orfani del batterista R.Gotobed), Wire non sono mai scesi a biechi compromessi estetici come altre bands della loro generazione ed estrazione musicale. Colin Newman (lead vocal, guitar), Graham Lewis (bass guitar), Robert ‘Grey’ Gotobed (drums) e Bruce Gilbert (guitar) - che abbandonerà il gruppo prima dell’uscita di “Object 47” (2008) per inseguire le sue smanie elettroniche, mutando tra l’altro in DJ Beekeeper nei techno clubs londinesi - conosceranno solo un decennio buio, tra i ’90 ed il 2.000.
Il loro ritorno sarà segnato da prove di un ritrovato altissimo livello, sino al 2011 del penultimo lavoro in studio “Red Barked Tree” e del live “The Black Session: Paris, 10 May 2011”, che vede il debutto del nuovo ottimo chitarrista Matthew Simms. Una certa sorpresa c’è stata nell’apprendere che in occasione di questo nuovissimo “Change Becomes Us” Colin Newman e c. non hanno lavorato a nuove songs, ma dato una forma compiuta a bozze ed ipotesi compositive mai elaborate e rimaste inedite risalenti al 1979-1980, fertilissimo periodo ispirativo contemporaneo e post “154”, terzo lavoro in studio. Nelle dichiarazioni e comunicati stampa che hanno preceduto l’uscita Colin Newman e la band hanno voluto fugare qualsiasi dubbio sulle ipotesi negative - magari formulato da qualche addetto ai lavori - di un riciclaggio dovuto a mancanza di ispirazione, o peggio ancora di una bieca operazione commerciale di retromania, sottolineando che alle tredici creature sonore di “Change Becomes Us” debba essere riconosciuto lo status di materiale nuovo a tutti gli effetti, risultato di un lungo processo di sgrezzamento ed ottimizzazione, “liberato dalle sue radici storiche” (parole di Colin Newman).
Che si voglia credere o meno alla buona fede di queste parole si prova un certo spaesamento auditivo a due anni dal chiaroscurale “Red Barked Tree”, opera sintomatica di una fisiologica maturazione compositiva, nel prendere atto delle movenze punkoidi di Stealth of a Stork, dei bruschi soprassalti di Adore Your Island, delle beffarde movenze di Eels Sang, quasi sbalzati fuori dai solchi corrosivi di “Pink Flag”. Meno micidiale è lo sbalzo di fuso temporale di BW Silence, Re-Invent Your Second Wheel, Keep Exhaling che sembrano attestare lo stupefacente indimenticato passaggio della band al mood più cerebrale, psichedelico, spaziale stigmatizzato in Chairs Missing e 154. Per le marziali Love Bends e Doubles & Trebles bisogna invece scomodare la band dall'approccio ieratico e freddo di "Send" e "Send Ultimate" (2003).
Il fil rouge con le atmosfere più espanse e dilatate del recente Red Barked Tree è comunque assicurato dall’ambient ad oltranza della pacificata & Much Besides, e dall’incantato mantra dei quasi sei minuti di Time Lock Fog: gli Wire che suonano un’ipnotica litania molto 13th Floor Elevators fiondati nel terzo millennio in sella ad una time machine, con il novello chitarrista Matthew Simms che fa un lavoro straordinario. Infine anche la disturbata Attractive Space contribuisce non poco a confondere le coordinate temporali, ma tirando le somme si può affermare che Change Becomes Us, nei suoi corsi e ricorsi atmosferici, corrisponde alla quadratura di un cerchio, quello dell’arte immortale, fuori dal tempo degli Wire: la forte sensazione è che dietro al lavoro ci sia da parte della band proprio questo progetto di fondo, è innegabile che l’abbiano condotto in porto brillantemente.
PASQUALE BOFFOLI
Voto: 6.5/10
Quella linea di luce che sono i Wire percorre le nostre vite con la stessa fredda intensità di ieri. E’ misura di un incedere che non smette di amplificare certe sensibilità che ci possiedono. Ricercando ritmiche e sfasandole rispetto alla nostra accettazione dell’ordinario. Certo, sono sempre loro, ma perché il tono della voce di Newman risulterà per sempre giovane?
Complimenti per le recensioni e grazie per il pre ascolto
Cribbio Marco ma tu scrivi bene: a me non sfuggono queste cose. Grazie per il tuo bellissimo commento. Che ne dici di scrivere qualcosa per noi di Distorsioni?
wally boffoli – distorsioni editor
Grazie a te. Sarebbe bello, in futuro. Ora il piglio è quello del reattivo commentatore. Mi farò ancora vivo. Un saluto
Quando vuoi Marco. Puoi scrivermi a wallybffl@gmail.com, o ci sentiamo in Facebook se ti fa piacere, ciao a presto
wally