Bryan Ferry AVONMORE
[Uscita: 17/11/2014]
Inghilterra # Consigliato da Distorsioni
E’ diventata ormai un’abitudine per Bryan Ferry alternare un album di cover a uno (quasi interamente) autografo. Due anni dopo l’escursione in ambito jazz di “The Jazz Age” e a quattro dai fasti di “Olympia” che a sua volta arrivava dopo tre anni dalle interpretazioni di brani di Bob Dylan - quel “Dylanesque” che aveva diviso critica e pubblico - eccolo riaffacciarsi sul mercato con questo nuovo “Avonmore”. Il titolo e il font usato per il lettering richiamano alla memoria “Avalon” l’album di maggior successo e ultimo in studio dei Roxy Music pubblicato nel lontano 1982, in questo modo i fan di vecchia data sono immediatamente rassicurati. Dalla copertina è sparita la tradizionale modella, esclusiva, quella regola per gli album del gruppo a cui ha fatto solamente eccezione Olympia, in quanto sorta di reunion non ufficializzata, per lasciare il posto a una foto in B/N di un Ferry trentenne. Oppure Dorian Gray, per associazione di idee. Anche perché anziché il 2014, l’anno di pubblicazione poteva essere indifferentemente il 1974 come il 1984, il 1994 o il 2004. Impossibile pretendere da un sessantanovenne l’introduzione di eclatanti novità però il lavoro risulta fatto con la dedizione, la passione e la classe che da sempre lo contraddistingue.
Anzi la qualità dei brani originali sembra si sia ulteriormente alzata e delle due cover scelte, se Send In The Clown (già nel repertorio di qualche decina di interpreti tra cui Frank Sinatra, Shirley Bassey e Barbra Streisand) risulta piuttosto stucchevole, l’altra, Johnny & Mary il grande successo del 1980 del povero Robert Palmer, è davvero rimarchevole. Lungo quasi sette minuti, il brano è apparso anche sull’album del produttore e DJ norvegese Todd Terje che rallentandola e adagiandola su un morbido ed elegante tappeto elettronico ha provveduto a renderla notturna e misteriosa, cogliendone in pieno gli aspetti piuttosto tristi del testo. La voce sfumata - e invecchiata, sì - di Bryan Ferry ne esalta l’aspetto malinconico e il risultato, davvero memorabile, consegna la canzone ai posteri. L’album inizia con Loop De Li che per il suo stile immediatamente riconoscibile è stata scelta come primo singolo. La canzone è molto bella e si avvale della presenza di sette chitarristi (tra gli altri, Neil Hubbard, Nile Rodgers, Chris Spedding e Steve Jones) che arrivano a nove (!) in Midnight Train, altro brano dal risultato davvero convincente. Appare scontato sottolineare come tutto il disco goda di una raffinatezza di arrangiamenti senza eguali: il fidato Rhett Davis, coadiuvato dallo stesso Ferry e in alcune canzoni anche da Johnson Somerset, è sempre più bravo e riesce a far coesistere nello stesso brano oltre quindici musicisti.
Abitudine quella di avvalersi di molti strumentisti intrapresa da Bryan Ferry dall’album “Boys & Girls” del 1985, la cui lista di quelli coinvolti era lunga quanto quella degli interpreti di un film di successo. In questo nuovo Avonmore si nota la presenza dal grande Maceo Parker al sax in One Night Stand, il brano più funkeggiante della raccolta, impreziosito anche dalla voce di Ronnie Spector ai cori e da Marcus Miller al basso e dalla squadra dei chitarristi nuovamente al completo. L’ex Smiths Johnny Marr è accreditato anche come co-autore di Soldier Of Fortune, canzone dall’impianto acustico che appare però leggermente fuori contesto richiamando un po’ troppo lo stile di Mark Knopfler. Il quale compare nella ballata Lost, brano lento e d’atmosfera che paradossalmente si avvale della presenza di ben tre batteristi: Andy Newmark, Cherisse Osei e il figlio di Ferry, Tara. Gli ultimi due forniscono il supporto ritmico alla canzone che dà il titolo al disco. Avonmore è roba davvero di alta qualità, le due batterie tengono un veloce ritmo tra i Neu!, la disco e certo Hard Rock di stampo seventies e la fanno filare come un treno diretto all’indietro verso gli anni settanta, le chitarre guizzano da tutte le parti e gli interventi di pianoforte e tastiere forniscono chiari richiami al glam tra i Roxy Music e il Bowie white-soul periodo “Young Americans”. Fiore all’occhiello di un album davvero convincente che regge benissimo il confronto con il resto di un’importante discografia.
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