Dropkick Murphys 11 SHORT STORIES OF PAIN & GLORY
[Uscita: 6/01/2017]
Stati Uniti
Se c’è una band da cui ogni volta sai esattamente cosa aspettarti, quelli sono i Dropkick Murphys. E, beninteso, questa caratteristica non è detto che sia a tutti i costi una cosa negativa. Il sound dei Dropkick Murphys dal 1996 è un tratto distintivo e peculiare della band “irlandese di Boston”, un groove capace di tenere perfettamente insieme l’alfa e l’omega, ovvero la violenza Oi! dell’East Coast e le sonorità sognanti dell’Irlanda di folletti, fatine e leprecani. Non fa differenza l’ultimo lavoro autoprodotto, “11 Short Stories of Pain & Glory”, uscito lo scorso 6 gennaio a quattro anni di distanza dal precedente “Signed and Sealed in Blood”. Si tratta, come suggerisce il titolo, di undici episodi di vita vissuta, ognuno dei quali racconta un pezzo della storia dei DKM, che quest’anno festeggiano il ventunesimo anno di carriera.
Tratti peculiari del disco del 2017 sono quelli che accompagnano la scrittura della band di Boston da sempre. In prima analisi, il carattere narrativo dei testi, mutuato dalla canzone popolare irlandese: si comincia con la ballata del marinaio solitario (The Lonesome Boatman) fino ad arrivare alla cover del coro da stadio per eccellenza, la famosa “You’ll Never Walk Alone di Gerry and the Pacemakers, divenuta inno prima del Liverpool e poi del Celtic, squadra di calcio scozzese che i Dropkick non hanno mai fatto mistero di tifare. Tratto dominante, dunque, sono le liriche “stradaiole”, che rappresentano l’anima intimamente “guerriera” della band: particolarmente evocativi brani come Rebels with a Cause, Paying My Way, First Class Loser e Kicked to the Crub, che sintetizzano alla perfezione il concetto di “brevi storie di dolore e gloria” in cui si alternano ribellione, denuncia, emarginazione, sperequazione sociale e quant’altro.
Il secondo tratto che accompagna tutto il disco (e, in generale, il suono dei DKM) è la commistione tra street punk e strumenti tradizionali celtici. Un cocktail esplosivo che vien fuori in modo dirompente da Blood, pezzo in cui si parla di violenza, risse e sangue a volontà, in cui la cornamusa fa da energico tappeto riprendendo fedelmente il riff di Ring of Fire di Johnny Cash.
In definitiva, dunque, si tratta del solito lavoro dei Dropkick, in cui l’ascoltatore viene idealmente proiettato nella Dublino del Temple Bar, dei fiumi di Guinness e delle lotte di strada. Tra flauti e tatuaggi, tra cornamuse e bicchieri rotti, i Dropkick Murphys sono questi: rudi, puri irlandesi d’America. Lo sono da vent’anni e lo saranno ancora (speriamo) a lungo.
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