Synecdoche New York Charlie Kaufman
Bizzarrie e stranezze della distribuzione cinematografica italiana. A sei anni dall’uscita negli Stati uniti esce anche nelle nostre sale "Synecdoche New York", la prima (e finora unica) esperienza di regia dello sceneggiatore Charlie Kaufman, deus ex machina di film come "Human Nature", "Se mi lasci ti cancello", "Essere John Malkovich", e "Il ladro di orchidee" (diretti i primi due da Michel Gondry, da Spike Jonze gli altri). Probabilmente la prematura scomparsa dell’attore protagonista del film, Philiph Seymour Hoffman, è stata il catalizzatore e l’occasione che ha spinto i distributori ad andare a ripescare questa pellicola uscita ormai da più di un lustro. Ma veniamo al film. Il cinema di Charlie Kaufman è particolarmente riconoscibile: tutti i film da lui scritti e sceneggiati hanno un filo conduttore che li lega e li rende unici nel loro genere. Per semplificare (molto) potremmo definirli degli arditi esperimenti di meta-cinema ad alto tasso psicanalitico, intenso lavorio sul linguaggio e sul mezzo; e non a caso le sue sceneggiature sono equamente distribuite tra Michel Gondry e Spike Jonze, registi simili per certi versi, e sicuramente adatti entrambi a raccontare per immagini i contorcimenti spazio-temporali-semantici di Kaufman. "Synecdoche New York" raccoglie e amplifica queste caratteristiche, e diventa la summa dell’idea di cinema di Kaufman, porta alle estreme conseguenze quell’idea di cinema-mondo e di cinema-specchio che permeava anche le opere precedenti da lui solo sceneggiate.
Carden Cotard è un regista teatrale, ossessionato dalla morte e pervaso da una strana inquetudine, da un’urgenza, quella della comunicazione, che lo spinge a preparare uno spettacolo che lasci un segno, che lasci il suo segno nel mondo, che diventi una traccia del passaggio della propria persona (cioè maschera, etimologicamente). Mettere in scena la propria vita – da sempre fine ultimo di tutti gli artisti – è l’ossessione del film, al dì là di qualsiasi autobiografismo, o in virtù d’una costante autobiografia, quella che giorno per giorno ci cuciamo addosso nella nostra esistenza e soprattutto attraverso la costante comunicazione col proprio io. L’enorme spettacolo teatrale preparato dal protagonista (uno straordinario, non è neanche il caso di dirlo, Philip Seymour Hoffman), la storia della sua vita allestita in un enorme hangar, scritta (come la vita stessa) giorno per giorno e costantemente aggiornata, s’allarga sempre di più in una complessa struttura a scatole cinesi che portano il protagonista (e il regista) alla ricerca di una totalità megalomane: sogno nascosto, non-detto primario di chiunque abbia provato a comunicare qualcosa attraverso l’arte.
Dirigere uno spettacolo teatrale (un film) diventa allora mettere in scena non solo un mondo, ma il mondo, l’unico possibile, riproducibile in scala uno a uno come la mappa del mondo in un racconto di Borges. Tutto quello che esiste nella vita trova necessariamente un doppio nell’opera: questo semplice assunto scatena un vortice potenzialmente infinito, un gioco di specchi in cui si rischia di perdersi, di lasciare scappare l’identità in un groviglio troppo spesso di doppi, di simulacri, di riflessi (ma si sa, lo specchio riflette sempre al contrario, è vero e falso allo stesso tempo, proprio come il cinema). Una parte per il tutto (la sineddoche, come il gioco di parole del titolo) che diventa necessariamente il tutto, l’universo, la mente del proprio creatore che si estroflette verso una realtà che vuole essere coperta tutta, fino al minimo dettaglio: i mondi interiori dei film precedenti (si pensi a "Essere John Malkovich") tentano una disperata sovrapposizione con la realtà dei fatti. Il regista vuol dirigere il mondo, si fa creatore e demiurgo, giudice e burattinaio: dio in una parola. Certo, il film rischia spesso d’aggrovigliarsi su se stesso in maniera forse inestricabile, ma il fascino resta intatto, e rivisto dopo sei anni (e finalmente sul grande schermo) conferma che Charlie Kaufman è uno degli autori (e una delle menti) più interessanti di questi anni.
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