Le due ultime cene di Tony Soprano James Gandolfini
Westwood, New Jersey 18 settembre 1961 – Roma, 19 giugno 2013
Un ricordo di James Gandolfini tra finzione e realtà
Lo scorso giugno ci ha lasciati a 52 anni James Gandolfini, attore italo-americano che è entrato nella storia del cinema per il personaggio di Tony Soprano, protagonista dell’omonima e celeberrima serie televisiva creata da David Chase. Un personaggio, quello di Tony Soprano, che entra di diritto nell’olimpo delle caratterizzazioni del malavitoso italoamericano e che va ad affiancarsi a “colleghi” cinematografici del calibro di Michel e Vito Corleone (Al Pacino il primo e Robert De Niro/Marlon Brando il secondo nella doppia incarnazione giovane/anziano), Henry Hill e Tommy De Vito (Ray Liotta e Joe pesci in “Goodfellas”), o l’Al Capone ancora di De Niro in “The Intouchables”. Che gli italoamericani abbiano dato tantissimo al cinema statunitense non c’è quasi bisogno di scriverlo, e bastano i nomi citati sopra per fornirne una dimostrazione, seppur parziale, alquanto esaustiva. Ma a questi nomi grandi ed eccelsi deve essere necessariamente affiancata la miriade di caratteristi, attori di secondi ruoli, che hanno colorito (a volte con sfumature comiche se non macchiettistiche, altre volte con toni assai drammatici) il cinema d’oltreoceano. Prima dei “Sopranos” James Gandolfini apparteneva a questa schiera: la stazza corpulenta e l’andamento flemmatico gli permetteva di incarnare alla perfezione l’italoamericano da manuale, perfetto in mille ruoli di contorno, in film più o meno importanti (dagli esordi con Lumet e Tony Scott, fino al recente “Zero Dark Thirty” di Katryn Bigelow). D’altronde gli esordi erano stati abbastanza convenzionali: intrapresa per caso la carriera d’attore (aveva accompagnato un amico ad un provino ed è stato notato), i primi passi erano stati nel teatro (il classico dei classici americani: “Un tram che si chiama desiderio”, accanto a Jessica Lange), e poi mille ruoli di contorno tra cinema e televisione.
Ma è con “I Soprano” che l’attore d’origine italiana ha dato vita ad un personaggio che ha messo finalmente in risalto le proprie caratteristiche recitative, le proprie doti interpretative, permettendogli d’entrare nella leggenda, anche se l’attore continuava a dire, forse per modestia, forse per scaramanzia, che quello di Tony Soprano era per lui un personaggio “di passaggio”, in attesa della vera grande interpretazione che lo avrebbe consacrato definitivamente. Fatto sta, comunque, che con la propria caratterizzazione del boss e capofamiglia della famiglia mafiosa del New Jersey (luogo altamente iconico nella caratterizzazione degli italoamericani) Gandolfini un piccolo spazio nella mitologia cinematografica americana è riuscito a ritagliarselo. E questa leggenda ha terminato la propria esistenza terrena durante quel torrido pomeriggio di giugno, a Roma, in cui l’attore è stato stroncato da una crisi cardiaca. Ma si sa, le leggende sono più forti della morte. Tra i luoghi comuni cinematografico-televisivi sugli italoamericani, al secondo posto – dopo la mafia, ma sicuramente prima del cattolicesimo folkloristico – c’è senza dubbio il cibo: preparato, cucinato, discusso, ma soprattutto mangiato. E non c’è bisogno di scomodare il grande cinema per averne una conferma, basta accendere la televisione e cercare Buddy Valastro e le sue improbabili ricette spacciate per cucina italiana; anche se forse conviene davvero scomodare i grandi, ad esempio Scorsese, Goodfellas su tutti ma anche il bel documentario “Italianamerican” in cui il regista cerca di svelare il segreto della salsa di pomodoro di sua madre.
Se il cibo è dunque l’eccesso, la pinguedine, la compiacenza assoluta nei confronti di un’abbondanza che gli anni della fame hanno insegnato ad ostentare vistosamente, la sua rappresentazione sullo schermo prende spesso il tono della farsa, del grottesco, dell’esagerazione. La morte di James Gandolfini – stroncato a Roma dopo una cena pantagruelica – ci riporta invece nel mondo della realtà, ma allo stesso tempo ci lascia sbigottiti per quanto questa improvvisa e tragica morte abbia assunto un connotato cinematografico imprevisto, come se il fato abbia assunto per una volta le sembianze di uno sceneggiatore in cerca di topoi sugli italoamericani. Innanzitutto il luogo, Roma, l’Italia, paese d’origine mai dimenticato dagli emigranti e dai loro figli (Gandolfini era italoamericano di seconda generazione), (non)luogo che sconfina spesso nel sogno, nella leggenda e nella cartolina (non c’è niente di più finto dell’Italia nel cinema americano, salvo rarissime eccezioni, ma questo è anche il suo fascino), un paese immaginato ancora da ricostruire (e forse è così), povero e pittoresco. Tutte caratteristiche che comportano insomma una reinvenzione, anzi una riscrittura, del Belpaese (un po’ come quando nei ristoranti d’oltreoceano tentano di far passare per pietanza italiana un piatto come gli spaghetti with meatballs). E poi il modo di andarsene, dopo una cena; episodio che non può non creare, anche in questo caso, un cortocircuito assai cinematografico, un cozzare improvviso di finzione e (tragica) realtà.
L’ultima cena di James Gandolfini non può infatti non riportare alla mente quell’ultima cena di Tony Soprano, nell’ultimo episodio della serie, momento arcinoto che chiude l’intera serie tv che ha definitivamente consacrato la carriera di James Gandolfini e che lo vedeva protagonista di una sequenza simbolico-onirica in cui in un’ “ultima” cena venivano tirate le somme d’una serie intera, in modo criptico e oscuro, finale aperto per eccellenza, possibile di innumerevoli interpretazioni e di cui ancora oggi si discute molto, tra i fan e non solo. Una sequenza di grande cinema (per la televisione, ma è lo stesso) che racchiude indizi e infinite chiavi di lettura, che lega le esperienze della serialità televisiva col grande cinema di gangsters (“Il Padrino”, ma soprattutto l’altrettanto criptico finale di “C’era una volta in America” di Sergio Leone). Un finale di stagione (e di serie) che eleva i Sopranos ad altezze cinematografiche impreviste, grazie all’arditezza delle sue scelte narrative che dimostrano, come se ce ne fosse ancora bisogno, che la serialità televisiva statunitense può competere ad armi pari col grande cinema. Una sequenza, infine, che, al di là della sorte del personaggio, consacra Tony Soprano, e con lui James Gandolfini, tra le icone del cinema mondiale, rendendolo protagonista di una delle più belle uscite di scena di sempre. Certo il cinema ha dimostrato poi di superare la realtà, la morte di Gandolfini è stata più tragica, dolorosa e inaspettata (e forse più banale), ma a noi piace pensare che anche la sua esistenza terrena si sia interrotta con quei dieci secondi di nero che mettevano la parola fine al suo personaggio strappandocelo all’improvviso senza dare troppe spiegazioni. D’altronde in quella ultima-scena/ultima-cena le immagini erano accompagnate dall’hit dei Journey che ci incitava tutti (noi e il protagonista) a Don’t stop believin’.
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