Il racconto dei racconti (Tale of Tales) Matteo Garrone
Stravagante è forse l'aggettivo che meglio descrive “Il racconto dei racconti”, ultimo film di Matteo Garrone, in concorso a Cannes. Per la sua prima opera in lingua inglese il regista fa una scelta coraggiosa: un film in costume, e di genere. Porta sullo schermo un classico della letteratura italiana, ma anche in questo caso la scelta è assai stravagante, perché cade su "Lo cunto de li cunti", capolavoro barocco del napoletano Gianbattista Basile, raccolta di fiabe (che poi la tradizione successiva, da Perrault ai Grimm, scolpirà nell'immaginario collettivo occidentale), grasso e magmatico documento di lingua napoletana che Benedetto Croce definì “il più bel libro barocco italiano”. Ma la trasposizione spoglia l'opera della sua “napoletanità” (scelta intelligente dal regista di “Gomorra”, che evita la versione barocca di questo film) e la trasferisce in un più internazionale linguaggio del fantasy cinematografico, inserendolo in una tradizione che parte dalla cartapesta di Mario Bava per arrivare al "Trono di Spade".
La stravaganza del barocco convive con uno stile misurato, complice anche la bella fotografia di Peter Suschitzky (fido storico collaboratore di David Cronenberg) che guarda alla pittura del Seicento, ma ne ammorbidisce i contrasti avvolgendo tutto in una nuvola di sogno. Una regia più composta (più internazionale?): Garrone abbandona la macchina a mano, i movimenti si fanno più fluidi, i piani sequenza più stabili, e questo è apprezzabile perché consente al barocco di non trasformarsi in barocchismo gratuito. Tre storie s'intrecciano in un meridione dal gusto moresco: il castello di Donnafugata e Castel del Monte sono i due set principali, ma il film esplora molti altri luoghi d'un Italia insolita (dalla Puglia, alla Sicilia, dall'Abruzzo, al Lazio), in cui convivono sfolgorante luminosità e buio assoluto, estrema pulizia e muffe ancestrali. Salma Hayek è una regina che pur di avere un figlio è disposta a tutto, anche a divorare il cuore d'un mostro marino (“pescato” da un John C. Reilly in uno scafandro che è quasi steampunk, in una delle migliori sequenze del film); Toby Jones alleva una pulce come fosse un animale domestico (fino a farla diventare grande come un cane) e concede sua figlia ad un orco delle caverne; Vincent Cassel è un re amante delle belle donne che prova sulla propria pelle come, alle volte, l'apparenza inganna davvero.
Ma questi sono solo i canovacci, come nella migliore commedia dell'arte: le bizzarrie si susseguono come solo nella fiabe sanno fare, sì perché l'elemento fantastico e fiabesco è il nodo centrale dell'opera, e così andrebbe preso il film, come un “trattenemiento de peccerille”, racconto, mito. Garrone ci dimostra come in Italia sia ancora possibile il cinema di genere (anche se c'è bisogno di una produzione internazionale per farlo); e allora la “stravaganza” vera è questa, un'anomalia che ormai è diventata malattia congenita del nostro cinema, fossilizzato nella strada senza uscita di un realismo che nella maggior parte dei casi non ha nulla da dire. Il fatto che il più grande regista “realista” italiano (forse europeo), l'uomo che meglio ha raccontato l'Italia dei nostri tempi, ci presenti oggi un'opera che è il trionfo della fantasia non solo dimostra l'estrema intelligenza del suo autore, ma sottolinea anche che (ed è difetto storico del cinema italiano) il cosiddetto realismo si basa in fondo su un grosso equivoco: quella soppressione del “genere” (ma non han forse ragione gli americani che hanno osannato "Gomorra" come un grandissimo gangster movie?) che altro non è che soppressione del cinema stesso. Qui sta la vera bizzarria, il vero grottesco, non nelle pulci giganti e nei mostri marini.
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