Il Grande Gatsby Baz Luhrmann
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Baz Luhrmann tenta l’impresa disperata di trasporre per immagini il romanzo che ha fondato la narrativa americana moderna, quel Grande Gatsby (già portato sullo schermo nel 1949 e nel 1974) che al suo apparire nel 1925 aprì un nuovo corso nella storia della letteratura d’oltreoceano (e non solo). Operazione ardua, vista l’importanza e la notorietà del modello (ma il regista australiano non è nuovo ad operazioni del genere, si veda il suo Romeo + Giulietta) e sostanzialmente poco riuscita, a causa soprattutto di un forte fraintendimento del significato profondo dell’opera di Francis Scott Fitzgerald, che sacrifica alle logiche del cinema hollywoodiano l’amara riflessione del romanzo. Da Baz Luhrmann non ci si aspetta certo rigore stilistico e sobrietà della messa in scena, ci mancherebbe. Ma non è tanto l’eccesso stilistico, il kitsch che si trasforma spesso e volentieri in vero e proprio cattivo gusto a far fallire l’operazione-Gatsby. Tutte queste caratteristiche di stile, infatti, ben si accompagnerebbero alla trasposizione per immagini del romanzo di Fitzgerald, specchio impietoso di quella generazione votata alla vacuità di un lusso e di una sfrenatezza (sociale, ma soprattutto economica) che di lì a poco andrà ad infrangersi contro il muro della Grande Depressione. Quello che non funziona del film è la banalizzazione di alcune caratteristiche fondamentali di alcuni personaggi, quelle caratteristiche che avevano fornito linfa vitale al romanzo, trasformando quei caratteri nel modello sociale che cadeva sotto le sferzate critiche dello scrittore. Conservare del Grande Gatsby sostanzialmente solo l’intreccio amoroso significa snaturare l’essenza stessa dei personaggi. Perché in fondo il romanzo di Fitzgerald è una storia di non-amore, una storia in cui si scambia l’avidità (di questo o di quel personaggio, ma in fondo di tutta una generazione) per ricerca di un sentimento puro assolutamente estraneo alle dinamiche dei personaggi stessi, ingolfati nella loro decadenza da operetta, e così impietosamente messe in luce dallo scrittore. Certo qui non si tratta di fare un confronto tra il libro e il film, confronto che sarebbe sterile a prescindere (perché ogni adattamento è, di necessità, un tradimento), ma di porre l’accento su come questa inaderenza, diciamo così, ideologica, porti il film verso una banalità diffusa che la ricchezza della messa in scena non riesce a tenere in piedi. Trasformare Il Grande Gatsby in una storia d’amore porta inevitabilmente con sé questi difetti, ed è quello che succede al film di Luhrmann. Il lavoro di sottrazione fatto su personaggi assai ben noti e conosciuti con determinate caratteristiche (Il Grande Gatsby è il romanzo americano per antonomasia, lettissimo e studiatissimo) calamita automaticamente (e giustamente) le critiche a tutta l’operazione. Limare da un lato la negatività d’un personaggio come Daisy (totalmente criticato e criticabile dal narratore), cercando di appiopparle una crisi di coscienza ben superiore alle caratteristiche di arrampicatrice sociale snob e vacua significa snaturare il messaggio centrale del romanzo da un lato, ma soprattutto sottrarre quel coraggio critico che una vicenda del genere vuole e voleva intendere. Relegare al ruolo di semplice osservatore il personaggio di Nick, che invece dovrebbe essere la coscienza critica dell’intera vicenda (il cui disgusto per la situazione nel film emerge, blandamente, solo verso la fine), significa non aver compreso a pieno il significato profondo dell’opera. Lo ripetiamo, qui non si tratta di fare confronti, di sostenere le ragioni del libro contro quelle del film (anche perché ce ne sarebbe davvero poco bisogno); il discorso è più ampio e generale, riguarda l’approccio ideologico che nel film è dato all’opera, un approccio che divide l’opera in livelli di lettura separati e non comunicanti tra loro, conservandone solo alcuni, e i più superficiali (la love story tormentata) non arrivando a comprendere che quella storia d’amore era nient’altro che il riflesso di una condizione, di una generazione, che in fondo era la vera protagonista del romanzo. E il discorso non riguarda neanche l’aderenza più o meno letterale al romanzo. Luhrmann riesce in un’operazione impossibile: realizzare un film tratto quasi alla lettera dall’opera letteraria da cui prende ispirazione (i dialoghi, ripresi parola per parola) riuscendo comunque a travisarne il senso, a svuotare quelle parole del significato che veicolavano indiscutibilmente. Venuto meno questo principio cardine il film si svuota inevitabilmente di senso, e si aggroviglia in uno sterile estetismo di cattivo gusto, nonostante alcune caratteristiche funzionino nell’economia generale del film. Prime fra tutte le immagini di quell’endless party che era la vita mondana dell’America dei nuovi ricchi degli anni Venti, che ben si sposa con l’estetica camp del regista, anche se non c’è nulla che già non si sia visto nei film precedenti, dalle scene di massa alla colonna sonora “anacronistica”, curata da Jay-Z, che in questo caso fonde la black music di oggi con quella di ieri (il jazz, nelle sue incarnazioni popolari e nella rielaborazione colta ghershwiniana). E se certe atmosfere sono gonfiate e dilatate fino ai limiti della sopportazione (le parole del romanzo che fluttuano sullo schermo, le sovraimpressioni), in altre parti del film Luhrmann riesce a rendere, grazie ad un montaggio frenetico, il nervosismo della prosa fitzgeraldiana. Cinematograficamente il modello seguito è palesemente Quarto Potere, come a voler fondere il grande romanzo americano col grande cinema americano, anche se alla fine entrambi restano fuori, indagati solo superficialmente, ignorando di fatto quella “americanità”, qui solo accennata. Il Gatsby di Di Caprio (forse l’unico attore, almeno tra i protagonisti, davvero in parte) non nasconde i suoi debiti con il Kane di Welles, anch’egli alla ricerca di una (meno misteriosa) Rosebud: anche in questo caso il tutto resta in superficie. Neanche un modello tanto illustre serve a salvare il film dalla confusione. Il vero spirito americano di un romanzo come Il Grande Gatsby (quel nesso di spirito d’impresa e avidità, soldi e cattivo gusto) resta dunque fuori da una pellicola, che, se pur digeribile nel complesso, rimane un’occasione mancata.
Luca Verrelli
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Premessa: promettiamo che in questa recensione non tireremo mai in ballo Robert Redford e la sua interpretazione del ‘74. Quanto è “grande” questo “Il Grande Gatsby” di Buz Luhrmann? Grandissimo nella forma, ma meno, molto meno nei contenuti. Non si piange, non ci si emoziona e non ci si commuove guardando l’ultima opera del regista australiano. Questa volta non siamo di fronte alla fantastica trasposizione di Romeo e Giulietta del 1996 e neanche alla splendida messa in scena del melò parigino Moulin Rouge. Questo “Il Grande Gatsby “ è il grandissimo “CircoBuzLuhrmann” che va in scena. Nani, ballerine, balletti, champagne, fontane e castelli, abiti eleganti e grande spreco di tutto. Forse il povero Scott Fitzgerald verrebbe colto da un infarto di fronte alla proiezione del film. Nessuno dei personaggi è in grado di trasmettere la propria vera essenza. Gli attori non hanno neanche il tempo di cambiarsi d'abito tra una scena e l’altra, tanto che alla fine ti chiedi il perché di tutto questo. La struggente, drammatica e romanticissima storia non passa. Non è credibile Leonardo Di Caprio nei panni di Gatsby. Il suo aspetto di ragazzino mai cresciuto (confessiamo la nostra insofferenza nei confronti dell’ex bambino-attore prodigio ) non aiuta a far decollare il personaggio. Gatsby (quello del libro) è un uomo che ha sofferto, meditato, aspettato e agito per un fine, l’unico della sua vita, ovvero Daisy. Non può essere lui l’uomo dal passato inconfessabile che, dopo tanti anni, pur di “riavere” l’unica donna che abbia mai amato, decide di comprare una casa di fronte alla sua, pur di rivederla e di starle accanto. Tobey Maguire dal canto suo, sembra un furetto spaventato appena uscito dalla tana, tanto da sembrare più un personaggio dell’Era Glaciale 3 che il narratore del dramma in corso. E se sperate che indossi la tuta dell’Uomo Ragno per risolvere il problema del suo nuovo amico Gatsby, beh, resterete delusi. Dispiace invece vedere la giovane e più che promettentissima Carey Mulligan, talento purissimo del cinema inglese e internazionale, non riuscire a spiegare le sue ali angelicate che ce l’hanno fatta amare in “An Education” e “Drive”. Tutto nel film di Luhrmann è grandioso, eccessivo e volgare. Più che essere negli anni della pre-depressione americana vi sembrerà di passare una serata al Billionaire. Basteranno quindi i grandi incassi statunitensi della prima settimana a fare grande questo Gatsby? Temo e spero proprio di no. Terminiamo questo pezzo concedendoci un luogo comune, anzi tre. Così come i primi album dei Genesis (quelli dove c’era Peter Gabriel) erano molto più belli, così come la Sardegna era molto più bella negli anni sessanta (prima dell’arrivo dell’Aga Khan), così, “Il grande Gatsby” cartaceo, denso, febbrile e passionale non ha niente a che vedere con il film. Promessa mantenuta Robert. E a presto “vecchi miei”.
Dario Neglia
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