Birdman Alejandro G. Iñárritu
"Birdman, o l'inaspettata virtù dell'ignoranza", un titolo quasi settecentesco da pamphlet illuminista per questa nuova fatica di Alejandro G. Iñárritu . E il film, in un certo senso ha qualcosa dell'apologo morale, della parabola filosofica, del racconto simbolico. Scandito fin dai titoli di testa da una batteria jazz che porterà, letteralmente, il tempo (entrando anche in scena) di tutta la narrazione, il film procede per sincopi ed ellissi, terzine e accenti ben marcati: un ritmo nervoso come certi movimenti di macchina che seguono gli attori in lunghissimi piani-sequenza arricchiti da una sfolgorante post-produzione digitale (fin dove si potrà spingere il mezzo, anche nel cinema “d'arte” lo stiamo solo iniziando ad immaginare); ma le lunghe riprese sono un ossimoro in questo film: non restituiscono realtà, anzi la dilatano e restringono a piacimento, diventano marchingegno di rappresentazione ellittica, di spostamento segmentato in un tempo interiore che non segue quello degli orologi.
Il piano sequenza non è più segno di “qui e ora” ma di “qui” e anche “lì”, e “prima” e “dopo”. La tecnica è quella del pedinamento, incessante, degli attori: un film di cunicoli e gallerie, porte che si aprono e si chiudono, spazi angusti e chiusi con qualche sporadica uscita all'esterno (una New York che vediamo e riconosciamo per dettagli): claustrofobico a tratti illuminato da una luce artificiale che crea notevoli effetti d'espressionismo (specie sui volti). Seguiamo innanzitutto Riggan Thomson (Michael Keaton) attore fallito, schiavo d'un personaggio (un supereroe, un uomo uccello che tanto ricorda l'uomo pipistrello che Keaton interpretò nei film di Tim Burton), e la sua disperata ricerca di ricostruirsi una carriera passando dal teatro, dalla cultura “alta” (mette in scena una riduzione da Carver). Insieme a lui una varia umanità tra attori e primedonne, avvocati e manager, mogli, amanti e uomini uccello; testimone di tutto una figlia un poco disfattista e un poco grillo parlante, testimone dai grandi occhi d'una vicenda che forse potrebbe avere un non so che di magico o addirittura super-umano (“vorrei strapparti gli occhi e metterli sul mio cranio, per poter guardare il mondo come quando avevo la tua età”).
Il film è una specie di "Rumori fuori scena" (ma meno farsesco) e "Otto e mezzo" fusi insieme in un ibrido tragico e grottesco: un film “dietro le quinte”, la storia d'un regista alla prese prima di tutto coi propri fantasmi, pronto a fare i conti col passato ma inevitabilmente destinato al fallimento. Ma è soprattutto un cinema di contrasti: New York e Los Angeles; Hollywood e Broadway; il cinema d'arte agonizzante e il cinema di supereroi macchina da soldi ma inconfutabile dimostrazione che ormai a Hollywood è sempre più difficile trovare un soggetto originale. Attori di cassetta contro attori di teatro: cultura alta contro pop-culture. In fondo il film di Iñárritu fa la parodia di un certo modo di intendere il cinema ed il teatro cercando il grottesco da entrambi i lati: la stanca ripetitività seriale del cinema di consumo (e della sua deriva social) contro certi cliché da intellighenzia intellettuale e salottiera newyorkese (la critica teatrale che scrive al bar su suo taccuino, sorseggiando un Martini).
Etichette: da un lato e dall'altro. Nient'altro che etichette. La crisi è totale e forse quel che serve è il gesto estremo, il ritorno della realtà sanguigna all'interno d'un mondo di finzione (dentro e fuori dalla scena). Ma neanche questo basta: come i piani sequenza che si caricano d'irrealtà (digitale) collegando in un un unica ripresa (virtuale) luoghi anche assai lontani, così il ritorno al reale puro e brutale non basta: ci vuole il gesto poetico, il ricongiungimento con la fantasia creatrice, unica spinta verso un volo che solo i più grandi riescono a concepire. Al di là del realismo, dunque, per Iñárritu si nasconde un super-realismo (scavalcando il surrealismo, troppo legato al sogno) sintesi estrema della ricerca artistica, e forse l'unico mezzo per conquistare il reale. Il solo strumento per riappropriarsi di quella dignità artistica che il cinema (almeno certo cinema americano) va lentamente perdendo è allora quell'ignoranza (leggi assenza totale di pregiudizi, di cliché, di snobismo intellettuale: un ritorno alla libertà creatrice, quasi fanciullesca, dell'atto) che si trasforma inevitabilmente nella virtù principale di cui il cinema contemporaneo va alla disperata ricerca.
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