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28 Settembre 2019

Valerio Mattioli REMORIA – La città invertita Roma

2019 - Minimum Fax, pp. 283

Essere al centro di qualcosa o essere fuori, appartenere o non appartenere, identificarsi o sentirsi estranei. Per Valerio Mattioli si potrebbe provare a dare una risposta a questi interrogativi esistenziali partendo dalla metafora del Grande Raccordo Anulare, conosciuto anche con l’acronimo GRA. Ebbene il GRA dovrebbe raccordare, unire ma la sua forma circolare di per sé annulla il concetto spazio temporale di inizio e di fine. Ancora più insidioso potrebbe apparire pensarlo come limes che racchiude e scandisce l’Urbe, la città di Roma. Nella sua piattezza orizzontale esso è più una fascia di irradiazione di propaggini urbane che dal suo buco nero gravitazionale non escono e non entrano, non si concludono, non si definiscono. Fuori da esso la città continua così come in altri punti diventa già spazio aperto prima di incontrarlo. Ostia o il lungo tratto abitato di via Casilina, la Bufalotta a nord, tanti territori slabbrati che compongono una toponomastica periferica slabbrata, irregolare, mai del tutto definibile. Il raccordo semmai potrebbe identificarsi con un centro, un ideale polo di convergenza dal quale si irradia la borgatasfera, una specie di città doppia, una proiezione o meglio un’ombra della città ufficiale che in qualche modo vive di vita propria in un’inversione, in uno spostamento di piano che scaturisce proprio dal non tempo e dall’eterno ritorno di quell’anello circolare. Suggestiva e inquietante l’ipotesi avanzata di una borgatasfera come negazione affermativa, ideale convergenza di tutto e di nulla. Per dirla ancora con Austin Osmon Spare, qualcosa che nella sua rotondità contraddice se stessa e che nella metafora del buco anale si predispone ad essere contro natura, osando negare la finalità riproduttiva dell'atto sessuale. Questa città non città morfologicamente nega se stessa e resta arenata in un incompiuto permanente. Si parte dalle origini del G.R.A., nel 1946, e dalle origini di Roma, 21 aprile del 753 a.C., dal fratricidio di Romolo ai danni di suo fratello Remo che aveva osato calpestare il solco circolare tracciato dal suo aratro, per avanzare la teoria dell’inversione aberrazione. E se invece di Roma, così come idealizzata da Romolo esistesse una Remoria fantasmagoria di Remo?

 

Ovvero una città speculare, incarnazione di uno spettro, materializzazione impalpabile di una vendetta per il sangue versato? Una città/non-città del regno sotterraneo degli inferi che tentasse di affiorare e di riprendersi i suoi diritti di estromessa per sopruso e per sopraffazione? Nel territorio della città eterna (si noti la non casualità dell’aggettivo eterna) infatti esiste una sorta di maledizione dell’eterno ritorno, di città che con le sue contraddizioni nega se stessa, di circolo vizioso che espelle e ingloba, che assolutizza se stessa in un cerchio che non è in grado di assolutizzare nulla. Nel vortice dell’ouroboros, del serpente mitologico che si morde la coda formando un cerchio, tutto si dissolve.

 

Quando l’Anas progettò i 69 chilometri del G.R.A., in un’Italia piegata rovinosamente dal secondo conflitto mondiale, di fatto eresse un monumento piatto sul nulla. Una infrastruttura che sembrava una follia avveniristica senza scopo, che si ergeva in orizzontale nelle campagne nel bel mezzo dell’assoluto nulla. Roma si trascina quindi una sorta di maledizione di città delle rovine, di rudere eretto a monumento, di decadenza, di potenza mancata, di impero regredito a celebrazione di un fasto mai più incarnabile. Dai suoi colli si contempla l’inutilità di qualche cosa che era e che ora non è. Marcel Duchamp ha scomodato la metafora della “macchina celibe” per indicare un dispositivo definitivamente incompiuto partorito inumanamente da un non scopo, insomma un mostro che poi finisce per sfuggire al controllo. L’inumano e l’inorganico che prendono forma in una non forma ottenebrante e perturbante. Il punto di scontro uomo-macchina dove tutto si sovverte e dove si sedimenta il desiderio, l’inconscio, il rimosso che tenta di affiorare. Paradossalmente nel non luogo, nell'antitopia dai confini irregolari della borgatasfera, si annida l'inespresso, il rattenuto, lo scarto, il rifiuto. Ma questo informe organico e materico è un po' come la grande discarica di Malagrotta, nel quadrante ovest extra GRA o come il Frankenstein di Mary Shelley, destinato a tracimare, a diventare fuori controllo.

 

Remoria è un mondo di sotto, è l'essenza di Remo spodestato, relegato all'oblio per volontà di un fratello prepotente. Ma Remoria non è, e questo significa anche che ontologicamente non può incarnare il male, non può essere il male se non come doppio legato sempre e solo a Roma. È uno specchio, una proiezione-incubo che riflette il male che le è stato inferto con la forza, con la violenza, con l'assassinio. Da questa affascinante speculazione Valerio Mattioli, con la sua scrittura stilisticamente superba, elevata ma anche allo stesso tempo originale e con tratti identitari esuberanti quanto intriganti, ci trascina e ci strattona dentro le sue pagine. Si arriva a divorarle tutte e 276 in un soffio, con coinvolgimento e partecipazione, a volte con sgomento e rabbia. Non si può non premiare la sua vivace spontaneità e non restare ammaliati dall’intensità del suo racconto che in molti casi è condito dalla prima persona, dall'aver vissuto parte delle esperienze raccontate. Allo stesso tempo però, proprio partendo dalla prospettiva personalistica in cui tutto è inquadrato si può arrivare a non condividere tutto ciò che lui ci illustra e la piega finale in cui va a parare tutto il suo suggestivo ragionamento. Non per spirito polemico sia chiaro, ma semplicemente perché ognuno di noi parte dal proprio punto di vista, dal proprio vissuto e inevitabilmente contestualizza e incamera tutto con il suo metro. Se poi quel qualcuno, come nel mio caso, è vissuto proprio in uno dei luoghi non luoghi più emblematici della borgatasfera come Torre Maura, diventa quasi impossibile non trascinare in un ideale tavolo dibattimentale anche il suo spaccato di emozioni impressioni. Ma su questo ci torneremo tra un po', non credo sia giusto spostare l'orizzonte speculativo allontanandone il fulcro. Ovvero il suo libro, le sue considerazioni. Anche perché ogni riflessione è stimolata dalla lettura stessa del suo lavoro.

 

Suscitano ricordi infarciti di nostalgia i suoi aforismi sui Centocelle City Rockers, l’adozione del punk come forma di rivolta e di contestazione delle verità imposte dall’alto, la lettura di film cult che hanno offerto uno spaccato della periferia come "Accattone", di Pier Paolo Pasolini (1961), "Amore Tossico" di Claudio Caligari (1983), "L’imperatore di Roma" di Nico d’Alessandria (1987). Poi c'è l'epopea della comparsa del dark, l’anabasi dei Guerrieri della notte, la suggestione favolistica ed esoterica di un popolo di zombie che prova a squarciare le tenebre e allo stesso modo si compiace delle tenebre stesse ed è fiero di rimanere nell’ombra. Senza dimenticare la follia visionaria di Stefano Tamburini e della sua creatura cyber coatta Ranxerox che si muove sul liminare più sottile tra romanticismo ingenuo, quasi fanciullesco e violenza inaudita, assolutamente brutale. Tutte fotografie valide e intriganti, compresa quella della controcultura musicale pervasa dalla mitologia del sabba , del cerimoniale pagano invasato e deviato dedicato a Saturno e che richiama Lamuria, Prometeo, il dio del fulmine emblema dell’elettricità, Summano. E ancora la diffusione della musica techno, il contagio del virus dell'artificiale, di un'allucinazione ipermoderna capace di stordire, di trascinare ogni residuo di umano in un artefatto macchinico, freddo, insensibile, robotizzato. Tutta l’iconografia si adatta molto bene per tratteggiare un’ideale dimensione sospesa dove si dovrebbe collocare il coatto, il pischello e la pischella di periferia. Un po’ cafone, un po’ infantile, certamente rude, volgare, spesso ladro o prostituta, ibrido di spontaneità e di emulazione, di rassegnazione e di voglia di riscatto. Poi però c’è una frase che Valerio Mattioli scrive e che dal mio punto di vista mi fa venire davvero voglia di dire ‘e no, nun me sta bene che no’ come fece il giovanissimo ragazzino di Torre Maura saltando all’onore della cronaca non più tardi di qualche mese fa a proposito di una triste vicenda di rivolta sociale seguita alla decisione di ricollocare alcuni rom presso un complesso in disuso del quartiere. La storia risale all’aprile scorso e credo la ricordino un po’ tutti. La frase del libro che respingo è «Passeggio per il quartiere e quello che trovo è un posto cattivo». A dirla tutta respingo anche una certa retorica semplicistica che vuole imputare alla borgata, al fuori, all'antitopia del disumano, del riflusso, del non esistente quell'attitudine fallica, cazzuta, maschia che è il fascismo e il disprezzo per lo straniero. A Remoria non possono ascriversi questi tracciati così rigidi proprio perché essa è vittima dell'alienazione e della marginalità voluta da Romulia. Non può avere timore dell'estraneo ciò che per elezione è già estraneo a se stesso. La gentrificazione, il calcolo della convenienza basato sul profitto, su qualcosa che deve proliferare, il continuo rimarcare fossati e linee di confine appartengono semmai a Romulia. Non a ciò che è sterile, improduttivo, infecondo, terra vagues per eccellenza. C'è un passaggio cruciale nel film di Pasolini nel quale Franco Citti 'Accattone' decide di provare a dare una nuova direzione alla sua vita di diseredato e di reietto. Si sveglia e va a lavorare. Come un normale sfigato che mette da parte gli espedienti per relegarsi alla servitù umiliante e degradante della produttività capitalista, altra forma di manovalanza di sicuro non meno sfigata. Ad un certo punto si vede passare nell'informe polverone in bianco e nero della borgatasfera, tagliata in trasversale dalla telecamera, proprio lui: il trenino. Il trenino deve essere chiamato così e solo così perché non è né un treno né un tram, non si provi nemmeno a edulcolarlo o a collocarlo fuori dalla sua identità mutante e indefinita. Gli abitanti della borgatasfera lo hanno sempre chiamato così. Quella strana creatura cingolante e retrofuturista che collegava in una specie di passaggio onirico e visionario il fuori al dentro. Il trenino è il mezzo di trasporto che nella sua poesia meccanica conduce a un eterno miraggio rivelatorio, a una traversata espiatrice verso una promessa che non si compie. È il locomotore ultra dimensionale di Remoria. Ebbene, averlo sottratto agli abitanti della borgatasfera è stato l'ultimo affronto, l'ultimo fratricidio. Da quel momento ciò che era agonizzante e semivivo è stato ucciso per sempre.

 

Le mie libere considerazioni...
Torre Maura non è brutta, non è il posto dove «non c'è niente che giustifichi nostalgia né idealizzazioni (...) di una bruttezza mediocre, scadente, nel migliore dei casi ordinaria». No, non è affatto ordinaria, Torre Maura è sempre stato l'avamposto dove si annida la vera essenza romantica della borgata. La più pasoliniana di tutte, quella che ostinatamente lo è rimasta fino alla sua morte-martirio. Sorniona, silente nelle sue coordinate ambigue di troppo lontana dal centro e troppo vicina al vuoto assoluto dell'oltre, ha sempre mantenuto una sua identità di margine incorrotto. A Torre Maura la gentrificazione non ha mai attecchito perché è sempre andata fiera della sua genuina perifericità. Era un monumento con altezze sempre controllate perché consapevole dei propri limiti e umilmente non ha mai nemmeno provato a superarli. Il sottoproletariato di Torre Maura si accontentava del proprio equilibrio raggiunto senza contaminarsi del falso ideale di un'inclusione ipocrita, respinta in partenza per predestinazione. Solo là si era potuto coltivare il sogno utopico dell'autocoscienza, la solidarietà comunarda e la generosità di chi avversato dalla sorte eroicamente resisteva in una rivolta di dignitoso e umile affiatamento. A Torre Maura c'era un sottobosco di iniziative e un ideale di comunità e vita di quartiere che aveva origini nella resistenza, nella tenacia con la quale si era rimesso mano alle macerie per ricostruire dei ripari da abitare, a dispetto del dilagare della grande speculazione edilizia e dei palazzoni eretti per commemorare il nulla. Torre Maura è sempre stata autentica e non ha mai rincorso la voglia di rendersi autentica con degli orpelli posticci, quelli sì ordinari, poiché di fatto omologanti. A Torre Maura l'attivismo politico per una strana concomitanza di sinergie era andato a braccetto con un sano ideale di comunità cattolica cresciuta al riparo di un campanile, di un'innata aspirazione alla fratellanza, più atavica che propriamente evangelica. Tutto questo aveva fatto da contenimento alla deriva del devasto, della droga usata come anestetico sociale. Ci aveva creduto così tanto nel comunismo da ostentare la falce e il martello per molto tempo dopo il crollo del muro di Berlino, dopo la dissoluzione del P.C.I., dopo la chiusura di tutti i circoli ufficiali di aggregazione.

 

L'unica accelerazione che ha conosciuto il nostro quartiere è stata quella del passaggio repentino dal sol dell'avvenire del miraggio marxista al sole nero dell'eclissi totale. Rimaneva il muretto, rimaneva il ritrovo di tanti giovani che non volevano cedere al riflusso e che voleva con-dividere anche la fase di ammutolimento, di disillusione. Ma poi hanno tolto il trenino, hanno chiuso i negozi, hanno chiuso la scuola di via dei Tordi, hanno chiuso la motorizzazione, il piccolo centro di attività che provava a servire l'agglomerato popolare dell'I.Sv.E.Ur. (Istituto per lo Sviluppo Edilizio e Urbanistico), hanno smantellato il piccolo mercatino rionale, trasformato la parrocchia in un Istituto parificato privato e semplicemente il quartiere è imploso, si è dissolto. La morte è stata l'assenza dei giovani, l'assenza dei piccoli esercizi commerciali storici sostituiti da sale slot e da discount bengalesi. La morte è stata trasformare le sue vie in passaggio furtivo di ombre dove regnava persino l'indifferenza a se stessi. Era stata Romulia a relegare il quartiere a discarica, alla stregua del Casilino 900. Semplicemente aveva deciso che quel bastione in-collocato non poteva essere funzionale all'autoconservazione della macchina del profitto, al business del capitale. La discarica si predisponeva ad accogliere scorie materiche e umane a suon di slogan ben confezionati e spudoratamente falsi sull'integrazione, sull'accoglienza, sulla minaccia incombente di una recrudescenza fascista. Ci avevano condannati all'amnesia permanente. A noi, che il fascismo lo abbiamo combattuto a mani nude, anzi no, con la falce e con il martello! Viene da chiedersi quale sia la vera Remoria.

 

Dal mio punto di vista il primo fascista incarnato, anzi, il primo gruppo di fascisti, li ho incontrati a scuola, nella scuola di via Palestro che non è Torre Maura. Sono passata dalle medie in cui i professori in eskimo con enfasi e partecipazione commossa ci parlavano della rivoluzione russa dell'ottobre 1917, del sogno di riscatto della classe operaia vessata, alla scuola del centro a pochi passi dal C.S.M. dominata dall'uomo nero e da un intransigente calendario di ordine, disciplina e sottomissione. Con questo non voglio dire che a Torre Maura i fascisti non ci fossero, per carità. Del resto è per antonomasia il luogo che contraddice se stesso con la sua realtà molteplice e polimorfa, metafora del caos che ingloba un po' di tutto. Ma il coatto di periferia è solo un fantoccio/feticcio travestito, un emulatore che non potrà mai avere la raffinatezza strategica e il cinismo spietato che emana dal CENTRO.

 

E sempre dal mio punto di vista fu con degli amici di università residenti a Corso Trieste che mi imbattei nei racconti esaltati dei rave e a intravedere una vasta gamma di pasticche variopinte, intime complici dello sballo tutto declinato al sintetico. Lo ammetto, io ancora ascoltavo i Coil, alla fermata del trenino campeggiavano le scritte Joy Division fatte con pennarello nero sui pali della pensilina. A Torre Maura poi ancora ci divertivamo a riunirci in qualche casa per suonare la chitarra dodici corde, i Led Zeppelin, Simon & Garfunkel e a dividerci una banalissima canna d'erba per amplificare le vibrazioni dell'ascolto. Che incaponiti, testoni romantici!
Viene da chiedersi quanto risulti comoda e funzionale per gli strati alti della scala sociale la narrazione amplificata del coatto rozzo e manesco. Le donne di Torre Maura che come delle erinni impazzite calpestano il pane destinato a dei fratelli, a dei compagni di sventura. Chi per un tozzo di pane si è rialzato dalla polvere, i figli di una cultura contadina che il pane lo considerano un dono benedetto. Le donne dei quartieri periferici che negli anni difficili sono state le colonne portanti dei valori della famiglia, le più tenaci a rimboccarsi le maniche per tenere viva la fiamma del focolare, la sacralità domestica. Questa è l'inversione.
Eccolo l'evo predetto dal film "Salò o le 120 giornate di Sodoma"! La più raccapricciante, estrema e blasfema delle visioni ermetico scatologiche di Pasolini. Il suo testamento finale sulle conseguenze ultime del sopruso, dell'arbitrio del potere. Ci piloteranno, ci faranno mangiare umiliazione e merda e non indosseranno la divisa fascista ma il più ordinario e istituzionale degli abiti blu.
Se tutto questo è potuto accadere uscendo fuori da tutti gli steccati regolamentari tipici della civiltà delle regole e dell'ordine, be' allora ad interrogarsi dovrebbe essere Romulia, il suo osannato ideale di progresso. Ma la sua coscienza è sporca, la sua etica si basa sull'inganno, su una squadratura edificata per occultare la macchia indelebile del sangue di un martirio. Roma è intrinsecamente condannata al suo contrario.

Romina Baldoni

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