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23 Aprile 2024

Scarface – 40esimo Anniversario Brian De Palma

1984 - Lucky Red

Regia di Brian De Palma. Con Al Pacino, Steven Bauer, Michelle Pfeiffer, Mary Elizabeth Mastrantonio, Robert Loggia. Genere Drammatico, - USA, 1984, durata 170 minuti. Uscita cinema lunedì 8 aprile 2024 distribuito da Lucky Red.

40 anni fa usciva nelle sale “Scarface”, il remake culto con cui Brian De Palma racconta il lato oscuro del sogno americano. I remake, si sa, costituiscono uno dei progetti più ardui per ogni cineasta. Quando si tratta del rifacimento di un grande capolavoro, realizzato in un’altra epoca, il lavoro è alla stregua di un’impresa titanica. Come è noto, una fetta consistente della critica e del pubblico non è particolarmente avvezza alle riproduzioni di altre pellicole. Del resto, l’idea è già stata sviluppata da un determinato autore, in un determinato contesto sociale. E se, indubbiamente, l’interpretazione personale di un’opera esistente rientra - a pieno titolo - nelle possibili manifestazioni artistiche di un regista, è altrettanto scontato che, in questo caso, il livello necessario per realizzare un prodotto di qualità si eleva in misura esponenziale. Per vincere la sfida, il cineasta è chiamato a condire la ricetta con ingredienti originali, a esaltare la propria mano autoriale per ottenere una tangibile diversificazione rispetto al suo predecessore: soltanto in questo modo il remake può salvarsi dall’appiattimento nell’anonima e anacronistica copia dell’opera autentica. Lo “Scarface” di Brian De Palma, probabilmente, è uno dei migliori esempi di remake della Settima Arte (se non il migliore in assoluto). Il progetto depalmiano, ai nastri di partenza, si presenta come particolarmente ambizioso per due ragioni fondamentali. In primis, si tratta di un’opera liberamente ispirata a una pietra miliare del cinema degli anni Trenta: lo “Scarface” di Howard Hawks, datato 1932, passato alla storia come il punto di riferimento essenziale del genere gangster. In secondo luogo, il Brian De Palma di inizio anni Ottanta, all’interno dei registi della Nuova Hollywood, benché titolare di un curriculum rispettabilissimo (tra i suoi film più fortunati, ricordiamo il “Carrie, Lo Sguardo Di Satana” del 1976), appare come un regista piuttosto derivativo, e viene snobbato da una parte della critica. Infatti, non riesce a scrollarsi di dosso la scomoda etichetta di epigono di Hitchcock – il maestro del brivido per il quale non ha mai nascosto la sua venerazione – ricamatagli sul suo abito autoriale in seguito a numerose pellicole di pretta marca hitchcockiana: benché si tratti, almeno in parte, di prodotti dalla pregevole fattura (fra tutti, spicca “Vestito Per Uccidere”), l’eredità del mentore è troppo pesante per essere riprodotta in salsa contemporanea con la medesima efficacia. Un repertorio di questo tipo, verosimilmente, precluderebbe al cineasta del New Jersey l’accesso nell’Olimpo della Settima Arte. La sfida, pertanto, sembra proibitiva. Come imprimere una svolta alla propria carriera con il remake di un film che non sembra ammettere imitazioni? Forse riuscendo a raccontare quello che l’originale non ha potuto o non ha voluto dire. Lo sfregiato di Howard Hawks – seguendo lo schema narrativo del 'rise and fall' – rappresenta le gesta di Tony Camonte, un bandito che prova a sgomitare nella malavita dell’epoca del proibizionismo. La magistrale applicazione del gioco di luci e ombre - tipico dell’espressionismo tedesco - e lo sviluppo di piani sequenza estremamente raffinati e innovativi per l’epoca, confezionano un’atmosfera dark estremamente fagocitante per lo spettatore; anche il protagonista – l’eroe nero che richiama la figura di Al Capone – rimane ipnotizzato dalla Chicago di Hawks, al punto da consegnarsi alle porte della rovina. All’inizio degli anni Trenta, però, le libertà autoriali sono estremamente circoscritte, confinate all’interno dei rigidi principi del Codice Hays (emanato due anni prima) secondo cui il cinema deve rispettare una pretta finalità educativa, talché devono essere messe al bando le scene che rischiano di compromettere il comune senso del pudore e della morale. Per salvarsi dall’opprimente scure della censura, la pellicola deve operare – per quanto possibile – una manichea distinzione tra buoni e cattivi, stigmatizzando la figura del criminale che, al termine del copione, soccombe necessariamente alla forza dei giusti (è molto significativa, a tal proposito, la premessa nei titoli di testa del film, che sembra annunciare un atto di accusa contro chi si pone al di fuori della legge). Inoltre, le scene a sfondo sessuale, e le sequenze che riprendono i crimini, devono essere ridimensionate fino ad assumere i crismi della sobrietà. Per questo motivo, le malefatte di Tony Camonte avvengono prevalentemente fuori campo, e il rapporto morboso che lega il gangster alla sorella è meramente accennato (e perlopiù stemperato in un senso di protezione). Con queste premesse, si apre un possibile campo di azione, entro cui un abile cineasta può muoversi per sviluppare un valido rifacimento. Brian De Palma lo sa, e naviga come un esperto e impavido marinaio in questo oceano di opportunità. Si avvale della sceneggiatura al collega Oliver Stone, vincitore – qualche anno prima – dell’Oscar per lo script di “Fuga Di Mezzanotte”: una scelta coraggiosa, quasi politica, destinata a costellare l’opera di elementi di provocazione e denuncia sociale. Per prima cosa, il remake viene contestualizzato proprio negli anni coevi alle riprese. Siamo nell’America reaganiana del 1983, un contesto nel quale la figura del self-made man è l’esempio da seguire maggiormente inflazionato, ove la spregiudicatezza nella corsa all’ascensore sociale è uno status symbol molto più avvertito rispetto alla società roosveltiana, bruscamente destata dal tracollo del 1929. Il “costi quel che costi” è spinto al suo livello estremo: non importa su quanti ring occorra scazzottare per arrivare in alto, poiché il fine giustifica i mezzi. La scelta della metropoli che fa da cornice alla storia ricade su Miami, il centro della Florida ove continuano ad approdare ciurme di esuli cubani che fuggono dallo spettro della collettivizzazione. Per loro, la via più facile per riscattare le memorie dal sottosviluppo risiede nel lato più oscuro del capitalismo sfrenato: l’affiliazione alla criminalità organizzata, e la conseguente speculazione sul mercato nella droga. La scalata ai vertici del narcotraffico è costellata da tutti gli eccessi che non erano noti agli antichi contrabbandieri di alcolici.

Tony Montana, protagonista dell’opera depalmiana, non è un bandito in giacca e cravatta. È un uomo volgare, sgradevole, volendo anche disturbante. È animato da una rabbia e da una sete di potere così penetranti da spogliare di ogni scrupolo le azioni che pone in essere. L’efferatezza dei suoi crimini, così come la pacchiana opulenza dei beni che ottiene con la bieca accumulazione di ricchezza, vengono esaltate per mezzo di riprese altamente estetizzanti. In questo caso, non vi è una contrapposizione tra due universi paralleli, uno giusto e uno sbagliato. Tony Montana, infatti, non rappresenta un agente patogeno che minaccia la società dei virtuosi, e che – per questo motivo – viene combattuto dalle forze positive destinate a trionfare.

Al contrario, il fuorilegge cubano costituisce un prodotto fisiologico di una collettività malata. Le istituzioni, dalle forze dell’ordine agli esponenti politici, titolari del potere/dovere di contrastare il male, denotano un elevato tasso di corruzione, e non disdegnano la firma di patti con la criminalità per partecipare al lauto banchetto che offre il vile affarismo. L’altra fetta di popolazione, quella che vive nel presunto ossequio della legge, è ammantata da un disarmante velo di ipocrisia e pochezza interiore. Parte dell’universo borghese, in particolare, condivide con il protagonista la spiccata avidità, benché concretizzata con i mezzi leciti più accessibili per chi cresce in determinati ambienti. Uomini che non esitano a sedere al tavolo di Tony Montana, a stringergli la mano, ad ammirare lo sfarzo prodotto dalla sua ascesa. Uomini che, altrettanto prontamente, sono abili a ripulirsi la coscienza, prendendo le distanze, additando il boss come un mostro nel momento della caduta. Tony non è del tutto privo di umanità, e vive qualche momento di grande verità. Nella celebre scena del ristorante stellato, si accorge di essere - ad onta del potere conseguito – una semplice pedina all’interno di un gioco più grande e spietato di lui. Spogliandosi di fronte alla propria coscienza, si interroga sulla reale importanza di quello che ha ottenuto all’apice del successo. Circondato dallo sguardo accusatorio di quegli astanti che, anch’essi parte più o meno consapevole del gioco, non avrebbero l’autorità morale per giudicare. Del resto, in quel ristorante lussuoso potrebbero sedersi Gordon Gekko e i suoi fedeli tirapiedi di “Wall Street”, o i soldati sciovinisti di “Platoon” e “Vittime Di Guerra”.  Se nello “Scarface” di Howard Hawks l’inno all’ambizione del protagonista, il luccicante “The world is yours”, è cristallizzato in un’insegna che appare all’esterno, per le strade di Chicago, Tony Montana traporta il mantra all’interno della sua villa, e ne gode in esclusiva, come eccitante specchio dei traguardi raggiunti in solitaria. Un potente simbolo dell’individualismo esasperato nell’America degli anni Ottanta. Un teatro ove la radicalizzazione del sé apre la discesa negli inferi.

Al Pacino, coadiuvato da una Michelle Pfeiffer in stato di grazia, fornisce l’ennesima maestosa interpretazione, e dà il volto ad uno dei personaggi più iconici della sua carriera. La miscela del diarcato De Palma/Stone è pronta, ed è ben lungi da una mera copia dell’originale. Il film depalmiano non è un semplice gangster-movie, ma assume i contorni di una parabola sui risvolti mortiferi del sogno americano, e sulla degradazione dei valori che l’arida corsa al capitale porta con sé. La scommessa è vinta. Brian De Palma irrompe nel Pantheon della Settima Arte. Il suo “Scarface” è un remake che fa la storia del cinema.

Alessio Fugazzotto

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