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6 Novembre 2020

Kevin Morby Sundowner

2020 - Dead Oceans
[Uscita: 16/10/2020]

Ritorna con il suo sesto album, "Sundowner" (Dead Oceans) uno dei giovani songwriters di punta della canzone americana moderna, nonché ex-militante degli outfit psych-folk dei Woods e garage-rock dei Babies: il kansasiano Kevin Morby. L’ultimo lavoro del nativo texano, da lui stesso definito come un tentativo di consolidare il crepuscolo del Midwest americano in suono, rappresenta una sorta di ritorno allo stile indie-folk-rock che lo ha reso popolare nel vittorioso triennio di "Harlem River", "Still Life" e "Singing Saw"; una formula temporaneamente accantonata l’anno scorso in favore delle incerte esplorazioni gospel di Oh My God. Siamo introdotti ai paesaggi crepuscolari di "Sundowner" dallo strumming deciso di Valley, accompagnato da morbide esalazioni di mellotron ed arrangiamenti disadorni, su cui spicca una voce rotonda e nasale figlia del Dylan di Nashville Skyline. L’appeal del songwriter è subito facile da individuare: il suo stile ricerca la profondità ed il sound dei mostri sacri degli anni ’60, canalizzando le sue influenze verso la modernità e sfociando in una produzione fresca ed accessibile, ricca di umanità ed anima. Brother, Sister attinge senza pudore dalle drum machines e dalle atmosfere cupe del Cohen di I’m Your Man, impalcature su cui si attorcigliano riff orientaleggianti, per culminare in un catatonico refrain sul filo del rasoio tra il pop moderno ed il doo-woop. La semplicità regna sovrana nelle tracce portanti del disco, sbocciando in composizioni rustiche ma ricche di meraviglia: Sundowner è un fingerpicking mellifluo ed onirico, elevato da leggiadre tastiere ascendenti e dalla voce avvolgente di Morby; Campfire, singolo guida dell’album, viaggia attraverso atmosfere tiepide e stratificate, costruendo variazioni melodiche sulla nuda malinconia di due soli accordi. A un primo impatto, l’inguaribile romanticismo di Morby colpisce a fondo attraverso la saggia e spoglia bellezza della musica, ma il suo è un incantesimo di breve durata. Mentre la sua forza trainante è senz’altro racchiusa nella capacità di distillare emozioni attraverso i canoni più spogli del rock, il suo tallone d’Achille in quanto artista è l’esserne dipendente a livello compositivo. Wander riprende le dinamiche e la struttura della opener, senza aggiunta alcuna ma accorciandone la vita; Don’t Underestimate Midwest American Sun, A Night At The Little Los Angeles, Jamie e Provision si agglomerano in un blocco di ballate perse in un lungo, lento, lamento unito da progressioni comuni, riciclaggi compositivi e un inevitabile sentimento di forzata intimità. Sul piano testuale, i motivi affrontati dal midwestern traspaiono più come asfissianti ossessioni che come veri e propri temi, poiché ripetuti incessantemente lungo la spina dorsale del disco: le simbologie scontate e le figure retoriche spicciole risultano in una poetica sfilza di immagini smarrite, in un filone narrativo il cui senso viene a mancare sempre più. Una pecca inconfutabile del disco e del catalogo stesso di Morby, in cui ci si imbatte spesso in riutilizzi stilistici di ogni genere: dai ritornelli, alle strutture, ad intere e proprie canzoni tradotte attraverso generi diversi. Una volta esaurite le parole, entrano in gioco le instrumental tappabuchi: Velvet Highway è condita dal ronzio dei motori lungo le larghe strade americane, attorno a cui il piano di Morby viaggia incessantemente da un’ottava all’altra alla ricerca di un climax tribale, corto ed insoddisfacente, consegnatoci da fugaci momenti percussivi. "Sundowner" non è il primo album di Kevin Morby a far leva sulle sole emozioni pure e liquide che riesce a snocciolare, ma è sicuramente il suo lavoro che più pecca di creatività e di arguzia. Un disco tedioso e monotono, che suona identico ad un altro disco di Kevin Morby. Speriamo che il vento di un anno nuovo e più speranzoso porti alla promessa americana una tanto attesa reinvenzione artistica.

Voto: 6/10
Gabriele Bartoli

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