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14 Giugno 2021 ,

CAN Live In Stuttgart 1975

2021 - Mute Corporation
[Uscita: 28/05/2021]

A volte la logica comune aiuta a compiere riflessioni più profonde. Ad esempio, chiediamoci se l’espressione di “musica senza tempo” abbia un senso. In realtà, nessuna musica è senza tempo, così come nessuna letteratura. Ogni espressione dell’uomo è figlia del proprio tempo, di un contesto preciso in cui una determinata cultura partecipa ad una formazione contingente del linguaggio artistico. A questo ragionamento non si sottrae la disamina di “Live In Stuttgart 1975” dei CAN, riedizione rimasterizzata per la Mute e la Spoon Records, sotto l’egida di Irmin Schmidt (unico membro ancora vivente della formazione originaria) e del produttore Rene Tinner, di uno dei tanti bootlegs registrati nel periodo d’oro della band di Colonia. I CAN sono la risultanza del loro contesto storico e culturale, quello che si ascrive ad un arco temporale che copre tutto il decennio degli anni settanta, ovvero quando la politica si fondeva con la vita sociale e le arti in genere. In questo senso, la musica dei CAN è qualcosa che ha un proprio tempo ben preciso e che si riconduce ad una osservazione del mondo e dei suoi cambiamenti, portandovi quell’energia e quella inquietudine attraverso le fibre di una musica indefinibile. Il jazz e l’avanguardia storicizzata di Stockhausen diventavano terreno fertile per esplorare infinite potenzialità e combinazioni che trovavano nella dimensione live il loro pieno compimento. Da un lato ci sono i CAN di album perfetti come “Tago Mago”, dall’altro c’è il profluvio di performances cristallizzate in innumerevoli nastri non ufficiali che giravano tra gli appassionati. Tra queste cassette vi è proprio il “Live In Stuttgart 1975” che ritrae la band nel periodo immediatamente successivo all’uscita di “Landed”, in un assetto a quattro con Irmin Schmidt, Jaki Liebezeit, Michael Karoli e Holger Czukai e senza Damo Suzuki. Il concerto della sera di Halloween del 1975 tenutosi a Stoccarda costituisce un momento di grandissima intensità, per la perfezione degli incastri apparentemente estemporanei dei quattro musicisti che navigano a vista nello sviluppo lineare dei brani. Le cinque tracce (Eins, Zwei, Drei, Vier e Fünf), al netto delle cesure della scaletta, sono un unico corpus ipnotico, una  sorta di catarsi innescata da bagliori di world music futuristica ed in cui trovare moduli funk ed echi della Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, così come del Miles Davis elettrificato. Il lavoro di restauro sui nastri ha cercato di restituire, per quanto possibile, la dinamica e l’impatto fisico. Ma, al di là dell’aspetto tecnico, prevale su tutto la parte più emotiva dell’operazione, cioè la forza evocativa di qualcosa che non c’è più, proprio perché nessuno ormai crede nel potere pervasivo e trascendente della musica. Solo due anni prima i nostri Area pubblicavano “Arbeit Macht Frei” a riprova del fatto che vi fosse una linea transnazionale di avanguardismo che scaturiva da radici comuni e che forniva gli strumenti per interpretare i segni di un mutamento necessariamente traumatico, ancorché a tratti violento. Ecco perché, a riascoltare i suoni cosmici di quella sera di novembre del 1975, possiamo dire che la musica dei CAN è perfettamente dentro il suo tempo ed in fondo non poi così lontano dal nostro così incerto presente.

Voto: 8/10
Giuseppe Rapisarda

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