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22 Maggio 2021

Nomadland Chloé Zhao

2021 - Walt Disney

Regia: Chloé Zhao; con: Frances McDormand; David Strathairn; Linda May; Charlene Swankie; Derrick Janis.  Genere: Drammatico. Durata: 108 minuti. U.S.A. 

“Home, is it just a word? Or is it something  you carry within you?”

Questi versi di Morrissey, tatuati sul corpo di una temporanea adepta dei magazzini fagocitatori di Amazon, sembrano descrivere con estrema semplicità, ma con una straordinaria ricchezza, il percorso di Fern lungo le lande di un’America tanto affascinante quanto spietata. Lei non ha più una casa. Quantomeno quella casa che corrisponde alla definizione comunemente accettata dalla società. Le draconiane leggi del mercato hanno cancellato dalle mappe il luogo, sperduto tra le montagne del Nevada, ove erano radicati i pilastri della sua esistenza. E così decide di portare con sé un po’ dovunque le macerie della sua non più giovane età, unitamente ai ricordi di un felice matrimonio infranto prematuramente da un destino crudele, trasformando il suo van in un’abitazione itinerante. In fuga da tutto, soprattutto da se stessa. Il sistema previdenziale a stelle e strisce non la tutela, le impedisce di sopravvivere dignitosamente per quel che resta del suo giorno. La giungla del lavoro occidentale non è l’habitat ideale per un pesce piccolo, estremamente volenteroso ma stagionato e senza una specializzazione nel curriculum. Vivacchiare di espedienti è l’unica alternativa possibile per quelle come lei. Il volto di Fern è profondamente solcato dall’inesorabile ticchettio delle lancette e dalle quotidiane battaglie per la sopravvivenza, ma all’interno delle sue austere ed impenetrabili cavità oculari due vispe pupille ci raccontano un’indomita voglia di vivere, una necessaria abilità nel riparare i cocci (di piatti rotti o di anime lacerate), un luccichio al cospetto degli orizzonti che la natura generosamente le offre. Lo stato perenne di ribellione, la mancata adesione ai duri dogmi del contratto sociale ha un costo molto alto da pagare. Il costo della ghettizzazione, dell’isolamento, dell’etichettatura, finanche dell’invisibilità. Impone di esaltare il proprio senso pratico, di sopperire all’impossibilità di avere accesso alla corrente elettrica, di trovare metodi alternativi alla comune doccia per liberare il corpo dal tanfo del sudiciume, di dosare l’espletamento dei bisogni fisiologici. Un ritorno allo stato primordiale, una celebrazione del contatto tra l’uomo e la terra, l’acqua, il fuoco e l’aria. Una riscoperta di lande che non sono ancora state deturpate da urbanizzazione e progresso, una fotografia degli sconfinati scenari di un deserto quasi inesplorato, che tanto ricorda le ambientazioni delle prime pellicole di Terrence Malick. Una condizione di solitudine stemperata dalla valorizzazione di legami autentici, dalla costruzione di una comunità che riunisce gli sfollati del commercio di tutta la confederazione, i reietti che si riuniscono sotto la bandiera dell’anticonformismo, della protesta silenziosa, costruendo il proprio microcosmo sopra un terreno demaniale che – esattamente come loro – si trova in stato di abbandono, dimenticato dalle istituzioni. Tutti con un bagaglio di piccoli o grandi drammi che si ritrovano a condividere attorno ad un caldo focolare, un po’ come i novellanti del Decameron fecero per preservarsi dal dilagare della peste e dal decadimento dell’urbe. Fern e i suoi commilitoni, con la loro disarmante spontaneità, non tardano a conquistare lo spettatore. Tutti, pur dall’alto dei nostri comfort, riusciamo ad immedesimarci nei nuovi nomadi e nelle loro inusitate dinamiche. Probabilmente invidiamo, almeno per qualche istante, il loro stato di libertà primitiva, in una fase storica ove le pacifiche regole di convivenza impongono pregnanti rinunce e odiosi compromessi. Frances McDormand sfodera l’ennesima performance da fuoriclasse, perfetta nella trasposizione degli impacci, dei dolori ben custoditi, delle contraddizioni di una protagonista fuori dagli schemi. Una donna che, senza indossare il vestito troppo stretto di una routine convenzionale, ha ancora qualcosa da scrivere nelle pagine della sua vita. Una donna che compie una rigenerante catarsi, decide di scendere a patti con il proprio passato, di liberarsi del macigno di Sisifo che ha spinto con ostinazione verso le cime del suo Everest. E riprende il viaggio, tra orizzonti indefiniti, ove la destinazione non ha alcun valore. Come una sorella maggiore del wendersiano Travis che si lascia alle spalle lo scrigno di errori ed illusioni sepolto nei terreni brulli della sua amata Paris, Texas. L’attrice si aggiudica meritatamente la terza statuetta della sua lunga e feconda carriera, confermando un talento cristallino noto agli amanti del cinema dai tempi di Mississipi Burning. È lei uno dei principali punti di forza di una pellicola non del tutto convincente. Un road movie che inciampa in qualche buco di sceneggiatura e che, talvolta, dà l’impressione di trovarsi a corto di carburante. Fern potrebbe essere un’icona di avversione al sistema, eppure sembra avere una visione positiva, quasi salvifica, del suo lavoro presso Amazon, una delle multinazionali che potrebbe avere inghiottito la sua piccola Empire. Allo stesso modo, taluno dei suoi compagni di avventura vive in modo ambiguo la (ri)collocazione presso una famiglia connotata dai crismi della media borghesia. Il film si presenta, nelle battute iniziali, come un’efficace denuncia contro l’eredità lasciata ai posteri dall’ultima grande recessione economica, principiata con il tracollo della Lehman Brothers, per poi appiattirsi  – senza un persuasivo amalgama – in un rigoglioso coacervo di intime sofferenze da condividere al riparo dai riflettori. Fino a stemperarsi, poco prima dei titoli di coda, in un melenso tributo alle comparse dell’universo che si sono perse senza riuscire a ritrovarsi. Chloé Zhao, emergente regista cinese di adozione statunitense, conferma quella passione per il lato oscuro dell’America che aveva già coltivato con il precedente “The Rder”, una delle opere più interessanti del cinema indipendente contemporaneo. Con "Nomadland" confeziona un affresco minimalista dalla reboante potenza visiva ed emozionale, ma dall’insipido sapore manierista. Pluripremiato alle rassegne di Venezia e Los Angeles (in particolare, con i prestigiosissimi Oscar al miglior film ed alla miglior regia), ed acclamato da una parte della critica – forse agevolato dal particolare contesto storico – il film non riesce a scrollarsi di dosso un carico di potenziale inespresso. Probabilmente, con il passare degli anni, verrà ricordato come un’opera importante ma non ancora matura di una cineasta che, comunque, ha dimostrato di avere molto da raccontare. Ai posteri l’ardua sentenza.

Voto: 7/10
Alessio Fugazzotto

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