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18 Agosto 2021

Minari Lee Isaac Chung

2021 - Academy Two

 

Regia di Lee Isaac Chung; Cast: Steven Yeun, Ye-ri - Han, Yuh Jung Youn,  Alan S. Kim, Noel Cho, Will Patton; Genere: Drammatico, Anno: 2020; U.S.A., Distribuzione: Academy Two. 26/04/2021.

Nell’America reaganiana degli anni ’80 un padre di famiglia sfida la mediocrità occupazionale che lo attanaglia. Con una giovane moglie e due figli in età scolare al seguito, abbandona nello scantinato della California la rassegnazione connaturata allo stato di migrante dalle terre del Sol Levante, e sale sull’ascensore diretto alla terra promessa dell’Arkansas. Non è la brama di arricchimento ad animare i suoi ambiziosi propositi. Jacob aspira a realizzare con le proprie forze una florida attività imprenditoriale perché vede in essa quel progetto che può consegnargli di diritto l’etichetta di self-made man, quel successo grazie al quale potrà vedere l’imperituro luccichio dell’ammirazione negli occhi dei suoi figli. Sullo sfondo di uno dei tanti specchietti per le allodole in cui si imbattono i più tenaci inseguitori dell’intramontabile sogno americano, la corsa al riscatto sociale del capofamiglia si addentra nei meandri di un intimo e poetico dramma familiare. Monica, devota consorte di Jacob, disapprova apertamente la sete di affermazione del marito e teme che questa possa costituire una seria minaccia alla sacralità dell’unione familiare. Donna conservatrice, pragmatica, modesta, rimpiange le anonime comodità della vita californiana e manifesta crescente insofferenza verso l’appezzamento di terreno sperduto nell’entroterra. Non crede che la nuova dimora sia foriera di fortune, bensì la causa di ulteriore isolamento sociale, ghettizzazione etnica e disagio nella conduzione del ménage domestico. Centralità della famiglia e abnegazione per la crescita lavorativa fanno spesso a cazzotti. Le visioni parallele dei coniugi trovano un possibile punto di convergenza nell’arrivo dalla Corea della mamma di Monica, vista come un potenziale apporto necessario nella gestione di casa e prole. Soonja, vedova tradizionalista, irrompe nella routine familiare mietendo gli equilibri con una ventata di elementi orientali, cimeli di una genuinità perduta e difficilmente compatibile con gli status symbols di una famiglia “americanizzata”. Il compito della matriarca si rileva subito assai arduo: Soonja sbatte contro l’acuta ritrosia di uno dei due nipotini, David, giovin virgulto vispo ed irriverente ma affetto da una patologia cardio-respiratoria che costituisce il vero banco di prova del dramma domestico. Le abitudini, gli ingredienti, i regali, i modi di parlare, accudire, giocare di Soonja sono troppo ancestrali e grossolani per sedurre un infante americano di nascita, i cui occhi a mandorla non possono arginare la contaminazione delle immagini veicolate dal mondo a stelle e strisce. In fondo, lei non è nemmeno una vera nonna secondo David. Eppure, il temperamento di una donna sopravvissuta - in solitaria - alle macerie della Corea del Sud della prima metà del Novecento può trasmettere ai discendenti un senso di resilienza ben superiore a quello dei genitori che provano confusamente a fare da collante tra due mondi apparentemente inconciliabili. Gli eventi precipitano. David inizia a fare i conti con le trappole tese dallo sfrenato sistema economico yankee, che sotto le lusinghiere ed ingannevoli spoglie dello sterminato ventaglio di opportunità fornito ai volenterosi e meritevoli stritola spietatamente i pesci piccoli, e non perdona chi commette errori nell’interpretazione delle regole del gioco. Monica è travolta in una spirale di apatia e di biasimo nei confronti della presunta crescente aridità del marito, che può provocare una frattura insanabile all’interno del nucleo familiare. Soonja, debilitata ma non piegata da un violento ictus, nel mirabile tentativo di preservare ciò per cui figlia e genero combattono cagiona accidentalmente un danno forse irreparabile. Pane e sogni sembrano andare in fumo, eppure sulla riva del torrente continua a germogliare il minari seminato da Soonja. Quell’erba di importazione coreana e sconosciuta all’uomo occidentale, apparentemente priva di valore e di appetibilità, ma capace di adattarsi ad una moltitudine di condizioni atmosferiche e morfologiche, di resistere alle intemperie, di fiorire copiosamente un po’ dovunque. Il minari come autentica metafora della vita, come allegoria della forza della semplicità, del ritrovamento dei legami autentici che possono lasciar intravedere la luce in fondo ad ogni tunnel. Il cinema coreano si dimostra ancora una volta una delle produzioni maggiormente interessanti dell’ultimo decennio. "Minari", in realtà, presenta tutti i crismi di un film ibrido, dove un montaggio condito da marcati elementi hollywoodiani si fonde con la poetica e l’introspezione tipica dei grandi registi orientali. Lee Isaac Chung, del resto, è un regista ibrido. Nativo americano da genitori coreani immigrati negli States, ripercorre con gli occhi del piccolo David difficoltà, speranze e timori di una delle tante famiglie orientali atterrate nell’El Dorado a stelle e strisce, anelando a una cura contro le profonde ferite inferte dalla guerra del 38° parallelo. Storie comuni in cui la grande chimera americana si stempera nella necessità di procacciarsi i mezzi di sopravvivenza per mezzo di occupazioni, quali il sessaggio dei pulcini, troppo poco gratificanti per essere destinate a candidati indigeni. "Minari" non è affatto un film antiamericano, né un violento manifesto di denuncia sociale, né un’opera dall’acuto nichilismo che solitamente intride ogni fallimento del sogno yankee. "Minari" è soprattutto un inno ai valori più puri che albergano all’interno delle mura domestiche, chiavi di volta per la risalita dal baratro. Il cineasta, tra il racconto e l’autobiografia, rende omaggio alle tematiche tanto care ai drammi familiari portati sullo schermo da alcuni maestri storici delle sue terre d’origine, con particolare riguardo all’indimenticabile fuoriclasse nipponico Jasujirō Ozu. Il film, però, non porta con sé quella carica di etereo pessimismo, di decadenza interiore, di struggente ineluttabilità che lascia un pregnante amaro in bocca allo scorrere dei titoli di coda dei capolavori d’altri tempi “Figlio Unico” o “Viaggio A Tokyo”. "Minari" regala un mesto sorriso al culmine della vetta di smarrimento, e lascia ai posteri il messaggio di speranza di un orizzonte rischiarato oltre le austere porte che si chiudono. Lee Isac Chung trova la notorietà e, soprattutto, la consacrazione come cineasta nella sua prima opera distribuita su larga scala. Le radici orientali segnano anche la sua risalita: lui, che poco tempo prima dell’inizio delle riprese aveva pensato di abbandonare il cinema, soverchiato dalla difficoltà di ritagliarsi un posto al sole e da alcuni probabili vuoti d’ispirazione. Eppure, in passato, aveva dato ampia prova del suo talento con alcune gemme nascoste alla gran parte del pubblico. Il sublime lungometraggio di esordio, in particolare, è precocemente ed ingiustamente caduto dell’oblio, a dispetto delle svariate critiche positive ricevute al Festival di Cannes in esito alla partecipazione al concorso “Un certain regard” 2007: si tratta di “Munyurangabo”, toccante e crudo affresco del Ruanda lacerato dallo scontro genocida tra Hutu e Tutsi, cesellato per mano dell’amicizia impossibile tra due ragazzi che provano a gettare lo sguardo oltre la divisione dell’appartenenza etnica. "Minari" rappresenta un’affermazione artistica che difficilmente incontrerà problemi di invecchiamento. Insignito del Golden Globe per il miglior film straniero e di altri importanti premi cinematografici internazionali, ha ricevuto sei candidature alla rassegna degli Oscar 2021 (tra cui le prestigiose nominations al Miglior film ed alla Miglior regia). Invero, soltanto l’interpretazione di nonna Soonja da parte di Yoon Yeo-jeong si aggiudica la (meritatissima) statuetta per la Migliore attrice non protagonista. Il film, probabilmente, avrebbe meritato riconoscimenti ancora più lusinghieri. Ma, al netto della bacheca, si lascia ricordare per la ricchezza di emozioni che conquista lo spettatore. I nostri sogni possono morire all’alba. Le speranze possono rivelarsi ai nostri occhi con le nude sembianze dell’utopia. I macigni possono avere un peso troppo grande per essere trasportati dalle nostre braccia in cima all’altura. Ma i semi del minari continuano a crescere nel giardino di casa nostra. E ci salvano.

Voto: 8/10
Alessio Fugazzotto

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