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4 Gennaio 2013

La leggenda di Kaspar Hauser Davide Manuli

2012 - Italia

kasparKaspar Hauser è prima di tutto un mito, un mito romantico. Un adolescente comparso all’improvviso in una piazza di Norimberga nel 1828, che sapeva dire solo il suo nome e poco altro, incapace di confrontarsi con la realtà perché, a quanto pare, la realtà non l’aveva mai vista, sperimentata. Aveva vissuto al buio (chiuso in una cella, da chi?), poi, improvvisamente, si era ritrovato alla luce, ri-nato nel mondo tridimensionale, che per lui era una novità, una patina a due dimensioni che si ritrovava attaccata agli occhi, di cui non distingueva la profondità (di campo). Il giovane entrò nella leggenda in modo misterioso, e in modo altrettanto strano ne uscì, assassinato non si sa da chi, non si sa perché. Fino qui la storia, scritta, letta e filmata innumerevoli volte (da Herzog, innanzitutto, ma è fonte secondaria anche di “Il ragazzo selvaggio” di Truffaut, che sì racconta un’altra storia, ma tratta in fondo lo stesso tema filosofico, quello del rapporto tra ragione ed esperienza). Poi c’è il film di Manuli: finisce l’enigma e inizia la Leggenda. Kaspar Hauser arriva su una spiaggia, anche lui non si sa da dove, non si sa perché. Ci sono degli UFO, ma forse i fatti non sono direttamente collegati, forse sì. Forse è un uomo delle stelle, abbandonato sulla terra.

 

Il dubbio dell’origine resta, ma quello che è importante è l’identità del personaggio, ripetuta compulsivamente da Kaspar stesso: “Io sono Kaspar Hauser”, e come se non bastasse impresso sulla pelle, indice dell’identità, ma di una identità tutta corporea, di performance, segno di riconoscimento del personaggio prima che della persona. Ma questa volta Kaspar non atterra a Norimberga, nell’austera e filosofica Germania, non diventa Fanciullo d’Europa, realizzazione concreta di un archetipo filosofico, buon selvaggio o simbolo esoterico: niente di tutto questo. Kaspar Hauser approda nello spazio cinematografico di Davide Manuli, lo spazio folgorante, desolato, desertico (da western metafisico) e bellissimo nella sua natura brulla (che è l’Alta Gallura, in Sardegna) che già aveva fatto da sfondo attivo ai due personaggi erranti di “Beket” – penultimo film del regista, che conkaspar1 questo condivide molto – e ad accoglierlo non ci sono medici e filosofi ma un’umanità dissociata, una selva di caratteri stilizzati e distaccati prima di tutto da loro stessi; ancora, dunque, personaggi abbandonati al loro stesso essere: lo sceriffo e il pusher (uno strepitoso Vincent Gallo, in un duplice ruolo), il prete, la puttana e la duchessa.

 

Tutti lo cercano, lo scrutano, lo guardano, vorrebbero avere con loro (e per loro), in questo spazio lunare, il misterioso nuovo arrivato, che forse è un re, forse un santo, forse un imbroglione, o forse niente di tutto questo; tutti tentano di penetrare l’afasia del giovane, di ridurlo a qualcosa di comprensibile e inquadrabile in uno schema, inconsapevoli di un fatto: Kaspar vuole solo essere un DJ, un cavaliere del suono, il suo linguaggio è quello della house music (Kaspar si sveglia ballando, e ha alle orecchie costantemente un paio di cuffie, che fanno sì che danzi di continuo, innanzitutto con se stesso), il suo miracolo, di nuovo forse, è quello di far sì che la gente balli in un deserto fisico ed interiore ad un tempo (il “deserto di idee” di certo cinema contemporaneo?). E forse Kaspar è un nuovo Simon del deserto, corteggiato da molti e non compreso da nessuno, e con quel film condivide una certa idea di tempo sospeso e una cristallina stilizzazione; e non a caso anche la pellicola di Buñuel terminava, ironica e iconoclasta, in un dancing.

 

Kaspar-Hauser-Davide-Manuli-Vincet-Gallo-Claudia-GeriniTra Kaspar e gli altri personaggi, siano essi accondiscendenti con lui oppure ostili, viene meno uno dei principi fondamentali della comunicazione verbale, la condivisione del codice (si potrebbe citare l’ormai classico Jakobson, quando scriveva che «nello scambio ottimale d’informazione, il soggetto parlante e l’ascoltatore hanno a disposizione pressappoco lo stesso ‘schedario di rappresentazioni prefabbricate’: il mittente di un messaggio verbale sceglie una di queste ‘possibilità precostituite’ e si suppone che il destinatario faccia una scelta identica nell’ambito dello stesso gruppo di ‘possibilità già previste e preparate’. Così per essere efficiente, l’atto di parola esige da coloro che vi partecipano l’uso di un codice comune»). Il linguaggio di Kaspar è pre-verbale, il linguaggio della musica, e in particolare della house, genere che necessita una fruizione primariamente corporale, attraverso il ballo; potremmo dire anche che il linguaggio di Kaspar sia, oltre che pre-verbale, addirittura pre-razionale (il Kaspar storico non conosceva che poche parole, il suo cervello era vergine, non ancora organizzato, sezionato dal linguaggio).

 

La-leggenda-di-Kaspar-HauserIl cinema di Manuli è un’esperienza non facile da raccontare, un prodotto unico non riscontrabile né avvicinabile ad altro, diverso, libero, anarcoide (ma in un certo senso rigoroso), che fa leva innanzitutto sul linguaggio stesso, il linguaggio delle immagini e del racconto, lirico e terrestre (o forse lunare) allo stesso tempo. È un cinema alieno e desertico come il personaggio che racconta, utilizza un linguaggio altro, chiede allo spettatore di abbandonare il codice tradizionale d’approccio alla pellicola e di condividere il proprio. Il film si apre con dei titoli di testa tra i più belli mai realizzati per un film, quasi un film-nel-film (usati anche come trailer, che di per sé è già un capolavoro), con gli UFO che sovrastano Vincent Gallo che si muove come un John Travolta postatomico, fino all’esplosione sonora che annuncia le coordinate (quasi) cartesiane del film (Isola, Anno zero, Luogo X, Mare Y), una fusione tra immagine e parola vagamente godardiana, sicuramente unica.  

 

Da qui in poi il “La Leggenda di Kaspar Hauser” procede per quadri, annunciati da un titolo, che alternano un’insistenza per la staticità (inquadratura fissa, lenti movimenti, recitazione dimessa), a momenti in cui la parola assume toni sopra le righe (lo sceriffo, così esageratamente yankee, o la connotazione dialettale del prete-Gifuni, interprete di un bellissimo monologo sul senso stesso del linguaggio) e si accompagna a una grande dinamicità corporale. Un film, insomma, che apre molte strade e percorre sentieri nuovi e La_leggenda_di_Kaspar_Hauser_5interessanti, che conferma lo straordinario talento visivo del suo autore, capace di trasformare luoghi geografici molto connotati in paesaggi d’un mondo sospeso e popolato da entità immobili, distaccate da sé, eppure costantemente in attesa (beckettianamente) di un fenomeno epifanico, di cui forse non saranno degni, ma che forse sarà soltanto l’ennesimo inganno (un falso profeta, un re con le orecchie d’asino, un principe dei folli, o solo un DJ). In Italia, come al solito, di questo film non si è accorto nessuno (o quasi), ma questo è un altro discorso.

 

 

Luca Verrelli

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