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31 Ottobre 2022

Il Potere Del Cane Jane Campion

2021 - Lucky Red

Regia di Jane Campion - 2021 - Con Benedict Cumberbatch, Genevieve Lemon, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee, Ken Radley. Titolo originale: The Power Of The Dog. Genere Drammatico - Nuova Zelanda, Australia, 2021, durata 125 minuti. Uscita cinema mercoledì 17 novembre 2021 distribuito da Lucky Red. 

L’anno 2021 segna il ritorno dietro la macchina da presa di Jane Campion, la talentuosa regista neozelandese che si è consegnata ai libri di storia della settima arte con il titolo di cineasta delle donne. Come la più accreditata portavoce contemporanea dei piccoli e grandi drammi quotidiani femminili in svariati contesti spazio-temporali, di indefesse battaglie personali che assurgono a rivendicazioni di genere, del crescente desiderio del gentil sesso di trovare la giusta collocazione in un mondo spesso ostile. Un ritorno parecchio agognato, avvenuto in sensibile ritardo a cagione delle stringenti regole di contrasto alla pandemia adottate dalla nazione oceanica, che hanno bloccato per un lungo periodo la realizzazione della pellicola. Un ritorno che avviene a oltre una decade di distanza dall’ultimo prodotto dell’artista, il delicato melodramma “Bright star”, che - seppur apprezzabile - non sembra lasciare troppo il segno. E a più di un ventennio dall’ultima affermazione internazionale targata Campion, il misticismo ambiguo di “Holy Smoke”, accolto tiepidamente all’atto della distribuzione, ma rivalutato negli anni a seguire da buona parte della critica. “Il Potere Del Cane”, prima facie, appare una ricetta che non contiene alcun ingrediente tipico del cinema di Jane Campion. Non viene servito come una pietanza al femminile. Non ha il sapore acre dell’universo invalidante di Sweetie – la reietta protagonista che dà il titolo all’interessante esordio del 1989 – imprigionata in un corpo che non è in grado di gestire, contrapposto al non meno disagiato microcosmo di una sorella vittima delle sue incapacità relazionali. Non ha il tenero gusto della speranza che riverbera negli occhi ingenui di Janet Frame, l’artigiana della penna che confida nel rumore dell’arte per riscattare il crudele destino riservato a una ragazza indigente, sgraziata e impacciata, cresciuta ai confini del mondo, nella toccante biografia “Un angelo alla mia tavola”, prima grande affermazione campioniana premiata con il Leone D’Argento nella rassegna veneziana del 1990. Non ha l’aroma travolgente che promana dalle composizioni di Ada McGrath – protagonista dell’indiscussa opera magna “Lezioni Di Piano” – una donna che sceglie il silenzio imperituro e affida alle tumultuose note del suo amato pianoforte l’espressione delle proprie passioni, e dell’intima ribellione alla compravendita di sentimenti tipica di una società arcaica. Non ha la pungente fragranza degli sguardi dell’avvenente protagonista di “Ritratto Di Signora”, Isabel Archer, un’atipica nobildonna ottocentesca dalla forza caratteriale necessaria per il ripudio di ogni percorso predefinito, per l’affermazione della propria indipendenza, e purtuttavia martire di sentimenti finiti in pasto agli avvoltoi.

Il Potere Del Cane”, invece, si presenta con l’olezzo di stivali sudici e lacerati, indossati da un rozzo cowboy del Montana degli anni Venti. È un prodotto tipico di un ranch dell’entroterra statunitense, di una comunità ove da decenni si tramandano storie scritte esclusivamente da uomini desiderosi di ostentare la propria virilità. Lo chef (ma guai a chiamarlo così, vedrebbe mortificato il suo orgoglio maschile!) di questo cibo selvatico si chiama Phil Burbank, uno dei due proprietari del ranch, un tipo tutto taverna e cavalli. Condivide l’ampia e prosperosa tenuta con il goffo fratello George: da anni il loro tempo scorre vacuo all’interno di una diarchia che non ammette incursioni di sentimenti. Benché saldamente compenetrati al focolare domestico, i due fratelli sono molto diversi tra di loro. George, infatti, non ha la prestanza fisica di Phil, e vorrebbe timidamente aprirsi ad un orizzonte che vada oltre il mero rodeo, contesto nel quale non potrebbe sentirsi pienamente appagato. La vivanda femminile compare sulla tavola come mero contorno decorativo, collocato al di fuori dei confini del ranch. È rappresentata da Rose Gordon, una vedova che gestisce una piccola locanda per mandriani, coadiuvata da un figlio adolescente dalle evidenti fattezze femminee. Sembrerebbe un elemento passivo, rassegnato, destinato a rimanere sullo sfondo. Eppure, diventa inconsapevolmente il detonatore degli equilibri del ranch. Inizia presto a ricevere la corte di George. Conquistata dai modi gentili del fratello buono e, forse, dall’idea di conseguire una stabilità per sé e per il figlio, accetta la proposta di matrimonio e si trasferisce rapidamente nella tenuta dei Burbank. Il mondo di Phil si sgretola. Mamma e figlio, due esseri apparentemente indifesi, con i quali si trova imparentato, deturpano la sua visuale quotidiana. Contaminano quell’aria pura di machismo che inebria le sue narici.

La memoria di Bronco Harry, il mentore, il maestro venerabile che ha forgiato il protagonista come cavallerizzo, è irrimediabilmente oltraggiata da due presenze insignificanti nella loro aura di romanticismo a buon mercato. Comincia quindi un incessante gioco al massacro. Invero, la personalità dominatrice di Phil denota, sin dalle prime battute, qualche elemento di distonia. Prima dell’avvento femminile in casa Burbank, infatti, giace quotidianamente in un letto matrimoniale condiviso con il fratello. Un affresco fanciullesco che fa a cazzotti con le pulsioni dell’età adulta. Sullo sfondo vi sono le alture del Montana, austere, maestose ed impenetrabili, immortalate da una sontuosa fotografia che richiama i western di Terrence Malick. Quelle alture che solo gli occhi di Phil sanno scrutare nelle loro forme più recondite. Quelle alture ove vengono proiettati i meandri inconfessabili di un’anima lacerata. Solo chi riesce a decifrare le geometrie delle vette che circondano il ranch può carpire il mondo sommerso di Phil, renderlo vulnerabile, trasformarlo da carnefice a vittima dei sussurri che un cowboy è costretto a mettere a tacere. E questo talento potrebbe appartenere proprio a chi sembra totalmente inerme e in balia degli eventi. E così Phil rischia di tramutarsi in un insciente martire del potere del cane. L’animale descritto come il migliore amico dell’uomo nell’accezione contemporanea, ma additato come un pretto simbolo di sudiciume, di tossicità morale, di bieco inganno, nelle pagine dell’Antico Testamento. La trappola dell’istinto represso, pronto a strabordare di fronte alla prima miccia. Allora il tocco di Jane Campion, in fondo, non ne esce tanto snaturato. I turbamenti dell’ambiguità sessuale, le incursioni bipolari della personalità, il perenne senso di incompiutezza dei personaggi, portati sullo schermo dalla potenza di immagini che – talvolta - rendono superflui i dialoghi, compongono un’opera simmetrica rispetto al repertorio della regista. La donna non è al centro della scena, non porta con sé la spada che trafigge l’anima, e non ha il potere letale del randagio. Ma assiste alla mattanza, e ne trae giovamento. La pellicola è arricchita dalle ottime interpretazioni di un cast di prim’ordine (eccellenti, in particolare, le prove di Benedict Cumberbatch e di una sorprendente Kirsten Dunst), nonché da una sontuosa colonna sonora, targata Jonny Greenwood, che va a braccetto con gli scenari selvaggi tanto cari alla regista. Acclamato dalla maggior parte della critica (seppur non sempre benevola con i virtuosismi della cineasta neozelandese), il film riceve numerosi riconoscimenti nelle maggiori rassegne cinematografiche (spicca, su tutti, il Premio Oscar per la miglior regia). Può essere pacificamente riconosciuto come una delle più convincenti opere dell’ultimo lustro, e – probabilmente - come la migliore dell’anno 2021 (ad ex aequo con il sublime road-movie esistenzialista “Drive My Car”). Con qualche depistaggio, autentico stimolo per gli appassionati e per gli esperti, il cinema di Jane Campion è tornato con tutta la sua estetica fagocitante. E ne sentivamo davvero il bisogno.

Voto: 8.5/10
Alessio Fugazzotto

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