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10 Marzo 2022

Arancia Meccanica – 50esimo Anniversario Stanley Kubrick

1971 - Warner Bros

Regia: Stanley Kubrick; Cast: Malcolm McDowell, Patrick Magee, Adrienne Corri, Michael Bates, Warren Clarke, John Clive; Genere: Drammatico; Gran Bretagna, 1971; Durata: 137 Minuti. 

Anno 1971. Stanley Kubrick decide di portare sullo schermo gli scenari inquietanti – narrati qualche anno prima dal romanzo di Anthony Burgess - che avrebbero albergato nei meandri londinesi di un futuro imprecisato. Probabilmente un futuro che, oggi, secondo i calcoli del cineasta, costituirebbe già passato. Lo sguardo torvo di Alex DeLarge, bombetta in testa e ciglio destro truccato, accompagna lo spettatore all’interno del Korova Milk Bar, il quartier generale della gioventù bruciata. Un luogo che rimbomba di depravazione, ove le giornate degli adolescenti evaporano con il bivacco in mezzo ad un arredamento pregno di oggetti sessuali, condito dalla degustazione dell’ottimo latte allucinogeno. Tra gli habitués del bistrot dell’empietà vi è la baby gang dei drughi, di cui Alex è il leader indiscusso. Un convivio di giovani emarginati che disprezza apertamente la società che li circonda. Privi di modelli cui fare riferimento (le famiglie di appartenenza sono inadeguate e incapaci di comunicare con i propri figli), scevri di valori, di obiettivi da raggiungere, di ideali per cui combattere. Comunicano con uno slang giovanile che loro stessi hanno coniato (il celeberrimo linguaggio “nadsat”) e che acuisce l’irreversibile processo di ghettizzazione Trovano come unico stimolo quotidiano la violenza gratuita, la bieca distruzione, la manifestazione degli istinti primordiali dell’uomo che – segnando un ritorno allo stato di natura - colpiscono ogni figura di un quadro degradato sotto la maschera della civilizzazione. Le rappresaglie dei drughi non sono espressione di una lotta di classe – della quale non hanno coscienza - ma di un crudo nichilismo. Attaccano, indistintamente, tanto i reietti come loro, quanto le tragicomiche forme di una borghesia dipinta con accese tinte dissacratorie.

Vestiti rigorosamente di bianco, tonalità che sembra indicare il candore di gioventù corrotto da un’era nociva, i malcichi sublimano l’ultraviolenza, e i coiti animaleschi, con il sottofondo di sinfonie classiche o con l’allegra coreografia di Singing In The Rain” Alex e i suoi compari potrebbero apparire, in superficie, nient’altro che un odioso, estremo spaccato della delinquenza giovanile. Quella devianza caratterizzata da un’irreversibile indifferenza alla scolarizzazione, da un’acuta tendenza ad agire al di fuori della legalità che spalanca le porte del riformatorio. Ma nel contesto spazio-temporale kubrickiano i meccanismi della buona condotta, e i divulgatori istituzionali della retta via, hanno un aspetto talmente grottesco e malsano da rendere i protagonisti, al contempo, spietati carnefici ed inconsapevoli vittime. L’esasperata ricerca di (cine)brividi lisergici conduce i drughi al tentativo di un colpo grosso: saccheggiare, nelle ore notturne, una pacchiana villa privata, sede di una clinica per dimagrire. La titolare vive da sola, circondata da un esercito di gatti e da un perverso arredamento a tema organi sessuali. Alex, in qualità di capobranco, si introduce in solitaria nell’abitazione, mentre i suoi sottoposti rimangono all’esterno come sentinelle. Nasce una colluttazione tra il malcico e la signora. Il magno simbolo della depravazione - una scultura fallica di valore inestimabile secondo l’inventario della proprietaria - segna il punto di non ritorno. Alex uccide, cade nella trappola dei suoi soci (desiderosi di rovesciare la sua tirannide nella crew) e viene consegnato nelle mani della giustizia.

Dell’agognata risocializzazione. O, forse, dell’ulteriore sventura. Le mura del penitenziario soffocano la natura di Alex. Privato di ogni spazio ove dar voce alle sue frenesie, si ritrova passivamente a fronteggiare nuove perversioni, latenti nei compagni d’istituto, e subisce – impotente ma mai sottomesso – interventi formativi meschini e non troppo ortodossi da parte degli sgherri. Sceglie allora di travestirsi da detenuto modello, e di speculare su ogni sconto di pena che il sistema accorda a chi riesce a cogliere il valore catartico della reclusione. Cerca di entrare nelle grazie del cappellano avvicinandosi alla lettura dei testi sacri. Con un metodo di studio particolarmente creativo, poco 'extra ecclesiam nulla salus', e molto calibrato sulla propria personalità. In fondo, nell’Antico Testamento non mancano spunti per reinventare atti di violenza e lussuria, e proiettarli in un’intima dimensione onirica, ove la quotidianità assume le sembianze di quell’adrenalinica libertà perduta. Ma questo non può bastare. Il drugo brama una rapida scarcerazione e, per raggiungerla, è disposto a mettersi incondizionatamente al servizio della patria. Si imbatte così in un sinistro programma governativo di risocializzazione, particolarmente ambizioso nell’obiettivo di debellare la criminalità e garantire l’ordine sociale. Non si tratta dell’adattamento di un tradizionale manifesto di politica criminale, bensì di una cura sperimentale che agisce sulla coscienza, sul processo cognitivo e volitivo dell’individuo, alterandone la spontanea formazione. Una lobotomia che provoca la soppressione del libero arbitrio, dissimulata dall’austera e rassicurante etichetta “Cura Ludovico”. Il paziente che risponde positivamente al trattamento perde la facoltà di porre in essere atti stigmatizzati dalle norme di condotta. E, in questo modo, può rientrare nella comunità entro due settimane dall’attestato di guarigione. Alex sottoscrive di buon grado il contratto con il governo. Inizia una serie di cineforum terapeutici nel contesto dei quali, rinchiuso in una camicia di forza, incatenato ad una sedia, è costretto ad assistere a svariate scene estreme di sesso e di violenza. I medici applicano sulle palpebre del drugo alcune pinze che gli impediscono di chiudere gli occhi. Il capo del paziente viene fissato a un poggiatesta collegato con cavi elettrici, volto a scongiurare ogni tentativo di distoglimento dello sguardo. La seduta è completata dalla somministrazione di un cocktail di farmaci che favorisce la traumatica identificazione della cavia con gli autori delle malefatte proiettate, e l’insorgenza di acuti sintomi di dissociazione, nausea, repulsione. Il paziente sembra rispondere alle cure. Per ottenere la scarcerazione, però, deve superare una prova finale. Lo studente ha frequentato con profitto il trattamento “Ludovico” se dimostra la totale impossibilità di reagire agli atti corporali che gli vengono inflitti, o di tradurre in gesti di libidine violenta l’approccio lascivo di donne nude.

La commissione esaminatrice decide di pubblicizzare l’evento a scopo di propaganda politica: le umiliazioni del test finale vengono inflitte al drugo davanti ad una pletora di burocrati bramosi di sicurezza pubblica, e pronti ad applaudire, entusiasti, alla completa neutralizzazione di un uomo malvagio. Alex è guarito. Può finalmente riacquistare la propria libertà, e iniziare a vivere come un’arancia meccanica. All’esterno si scontra con una realtà capovolta. Le strade londinesi sono finanche più feroci di quelle che aveva abbandonato qualche anno addietro, e le nuove leggi di natura assegnano al malcico – orfano della compianta ultraviolenza e di ogni strumento difensivo – il ruolo di una facile preda per il prossimo. Alex si ritrova senza tetto, ripudiato da genitori che hanno frettolosamente sostituito un figlio debosciato con una creatura plasmata secondo i valori ipocriti e distorti del sano nucleo familiare. Girovagando, privo di destinazione, senza alcun orizzonte, è costretto a porgere l’altra guancia davanti alle gesta vindici di coloro che in un’esistenza precedente erano state le sue vittime. Si imbatte nei vecchi compari di malavita che, nel frattempo, sono scesi a patti con i soloni dell’ordine costituito, asservendo la propria forza bruta alla difesa della comunità. Avvalendosi delle preziose divise da poliziotto, mostrano all’ex capo le nuove gerarchie, sottoponendolo ad ogni genere di angheria legalizzata. Il caso conduce il malcico, tramortito, nella tana di Frank Alexander, un influente scrittore sovversivo, organizzatore silenzioso di una resistenza contro il condizionamento delle masse perpetrato dal regime di Stato. L’artista riconosce in Alex un soggetto svuotato dalla “Cura Ludovico”, e offre il suo aiuto ad una pedina fondamentale per la propria lotta. Sfortunatamente, il drugo è anche l’aguzzino che, tempo addietro, ha devastato la vita dell’autore, provocandone la paralisi perpetua e, soprattutto, violentando barbaramente sua moglie, poi deceduta. Il dott. Alexander, dopo aver ricollocato il personaggio che ha di fronte, capisce che l’evento in grado di scuotere maggiormente l’opinione pubblica può coincidere con la ricetta idonea a placare la sua fame di vendetta. E così, lo scrittore istiga Alex al suicidio, rinchiudendolo in una stanza ove le pareti rimbombano di musica classica. Quella musica il cui ascolto, in seguito al trattamento “Ludovico”, cagiona al protagonista l’insorgenza di dolori lancinanti: del resto, la società non può permettersi il lusso di lasciare al paziente la degustazione della colonna sonora delle antiche malefatte. Il tentativo di suicidio fallisce. Anzi, il trauma causato dall’azione libera Alex dagli effetti del condizionamento subito nel penitenziario. Al suo risveglio, eruttano lapilli di arroganza e strafottenza tipici del vecchio malcico. Il governo reagisce al velleitario colpo di Stato tentato da Frank Alexander, e dirige un’accurata operazione per mettere a tacere lo scandalo e addomesticare i sentimenti della massa. Occorre la redazione di un nuovo pactum sceleris. Questa volta, però, Alex detiene una posizione contrattuale dominante nei confronti del partito di maggioranza. Il malcico collabora in cambio dell’assunzione nelle forze dell’ordine. Anzi, una controprestazione davvero equa sarebbe il collocamento ai vertici della polizia. Nel letto d’ospedale ove il protagonista è convalescente dal mancato suicidio, alla presenza di un’orda di giornalisti ben addestrati, l’intesa è raggiunta. Il governo è in salute, caro popolo, con il suo amorevole paternalismo ha salvato un consociato dagli artigli dei cospiratori. Alex è raggiante, più in salute che mai. Oh, che emozione cinebrivido, per uno come lui, praticare sesso e ultraviolenza con la benedizione della legge, al di sopra di ogni sospetto! Un monito angosciante, un manifesto di rassegnato pessimismo. Kubrick consegna al pubblico il ritratto di un uomo irrimediabilmente corrotto nel momento in cui entra in relazione con i propri simili, e mercanteggia la propria essenza in nome del presunto bene comune. L’uomo nasce libero, ed è connotato da tutta la brutalità tipica degli animali. Il contratto sociale di matrice rousseauiana, però, insegue lo scopo di limitare la distruttività dello stato brado con statuizioni parimenti malvagie. La visione del cineasta si discosta, in parte, da quella dell’autore Anthony Burgess. Quest’ultimo sembra conservare un brandello di fiducia nei posteri. Alex DeLarge, nel romanzo, dopo la contro-guarigione dalla “Cura Ludovico”, desidera una nuova quotidianità al riparo dalle vette di ultraviolenza, verso le quali non prova più alcuna eccitazione. Fantastica sulla creazione di una famiglia, fondata su sentimenti sinceri, con cui poter dare un piccolo contributo per un mondo migliore. Pur cosciente del fatto che le generazioni future vivranno tempi ancora più bui rispetto agli anni della sua gioventù, vorrebbe trasmettere a un figlio valori diversi rispetto alla follia di cui è stato protagonista. Il malcico dell’opera cinematografica, invece, specula sui vizi del sistema per riportare in auge la sua incontenibile vis distruttiva. Non agendo in aperto contrasto con i meccanismi sociali che esecra, ma muovendosi all’interno di essi. Kubrick pone in maniera apertamente provocatoria una serie di delicati interrogativi sulla questione etica del libero arbitrio, in contrapposizione con il dirigismo statale. Senza prendere una posizione, si domanda fino a che punto sia legittima la dissoluzione dell’individuo per il perseguimento del supposto interesse generale. “Arancia Meccanica” può essere anche una disperata locandina politica, un grido di dissenso avverso ogni incipiente forma, più o meno dissimulata, di totalitarismo. Il condizionamento della volontà perpetrato con la “Cura Ludovico”, infatti, non è un mero strumento di contrasto alla criminalità. Si può spingere ben oltre, fino a diventare una micidiale arma di repressione delle opposizioni, e finanche di ogni giudizio non allineato con i detentori del potere. È la medicina grazie alla quale si può raggiungere il tanto rassicurante pensiero unico. Benché il protagonista rappresenti, in fin dei conti, uno dei più efferati criminali della storia della settima arte, il corso degli eventi induce lo spettatore a provare, svariate volte, empatia nei suoi confronti. Il volto di Alex DeLarge segna la carriera di Malcolm McDowell, notato da Kubrick dopo la piacevole rivelazione del film “If…”. L’attore ripaga la fiducia in lui riposta con una prova memorabile, e accondiscende ad ogni esigenza di perfezionismo del regista (anche sottoponendosi, sul set, ad operazioni gravose per il proprio corpo). “Arancia Meccanica” è, probabilmente, l’opera più maledetta targata Stanley Kubrick. Una lama affilata che taglia a pezzetti lo schermo. Una bomba estremamente difficile da disinnescare, a dispetto delle censure, delle amputazioni, delle estromissioni dai palinsesti televisivi. In Italia, la programmazione in tv della pellicola rimane un tabù per oltre trent’anni, forse per il rischio diseducativo derivante dalle scene di violenza urbana, forse per il pericolo di deflagrazione del programma veicolatore delle masse adottato dai media. Viene trasmessa, per la prima volta, nella seconda serata del 25 settembre 2007. Al pari di molti altri capolavori kubrickiani, “Arancia Meccanica” – nonostante gli encomi ricevuti da importanti cineasti e da gran parte della critica – non riscuote particolari riconoscimenti nei principali festivals. Qualche nomination, nessuna statuetta, un numero di premi risicato. Ma per il genio di New York questo non ha molta importanza. A mezzo secolo dalla sua nascita, l’opera mantiene una potenza visiva e comunicativa tale da non mostrare alcun segno del tempo. E forse oggi, più o meno consapevolmente, ci troviamo a vivere una piccola riproduzione di quella distopia che Stanley Kubrick aveva genialmente preconizzato.

Alessio Fugazzotto

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