Salvatore Silvano Nigro - Silvia Moretti Promessi sposi d’autore. Un cantiere letterario per Luchino Visconti
Nel 1954 la casa di produzione cinematografica Lux film invia una lettera circolare ad una serie di intellettuali italiani: chiede loro un parere su una eventuale e prossima realizzazione di un adattamento cinematografico dei Promessi sposi. L'occasione è fornita da una nuova traduzione inglese del romanzo, realizzata da Archibald Colquhoun, che di Manzoni si era innamorato quando era in servizio in Italia con l'esercito alleato nella Seconda Guerra mondiale. La traduzione aveva avuto, in Inghilterra ma anche negli Stati Uniti un successo inaspettato; e aveva motivato la Lux a insistere sul progetto di un film sui Promessi sposi che leggesse il romanzo in maniera più sincera, vera, con gli occhi d'una società nuova, appena uscita dalla guerra, ma che sapeva riconoscere i propri maestri. Il film doveva essere moderno e internazionale, tale da restituire all'Italia il suo classico per antonomasia e da far conoscere al mondo un capolavoro meno conosciuto di quanto meritasse. Il dibattito si innesca velocemente, e a rispondere alla lettera della Lux Film ci sono alcuni tra i più grandi intellettuali italiani dell'epoca: Moravia, Soldati, Bacchelli, solo per citare i nomi più noti. Il “trattamento” alla fine venne affidato a Giorgio Bassani, con Emilio Cecchi a fare da garante di un progetto che si annuncia grandioso e rivoluzionario.
La storia della preparazione di questo film, che rimase solo sulla carta e non venne mai realizzato, è ricostruita da Salvatore Silvano Nigro e Silvia Moretti nel libro I promessi sposi d'autore. Un cantiere letterario per Luchino Visconti. Nel secondo dopoguerra Manzoni era rientrato a pieno nel dibattito sul nuovo realismo; se ne proponeva una lettura moderna, ma che era quantomai vicina allo spirito originario dell'opera. Un romanzo come I Promessi sposi, scritto sotto un oppressore straniero e ambientato sotto il giogo di un'altra potenza straniera, letto all'indomani della liberazione da un terzo (e forse più feroce) oppressore acquistava un significato inedito; o meglio riportava a galla quei sedimenti d'autore che una lettura troppo scolastica e "parrocchiale" aveva lasciato immobili sul fondo per troppo tempo, e che avevano solo bisogno d'una nuova mescolata. Un Manzoni “di guerra e pace”, quello letto alla fine del secondo conflitto mondiale, un romanzo di un'umanità piccola governata da grandi forze (quella Provvidenza, entità assai ben più complessa di quanto una lettura catechistica del romanzo ci abbia fatto credere), attraverso il quale la realtà si palesava viva e vitale, in ogni suo strato. Un romanzo di popolo in cui il popolo (pessimisticamente) è parte d'un piano più grande che va accettato così com'è, anche nei (tanti) momenti di male assoluto, e che dissolve i personaggi e la Storia nel magma del reale (di quel realismo cattolico che Moravia non poteva, o non voleva, comprendere).
Gli intellettuali interrogati dalla Lux Film danno pareri eterogenei. Il romanzo ha un andamento ampio, tipico d'un grande narratore; i personaggi sono tanto importanti quanto il contesto, e certo non si può ignorare quel macro-personaggio che è la Provvidenza (Bacchelli), o le sottotrame, né tanto meno la funzione del narratore onnisciente (e allora Cecchi propone la voce fuori campo). Non sbaglia Guglielmo Alberti, nella sua risposta, a proporre che “primissima qualità del nuovo regista dei Promessi sposi avrebbe ad essere quella di narratore, così come maestrevolmente sanno esserlo gli americani. Tanto per fare dei nomi, i primi che mi vengono in mente son quelli di Kazan, di Dmytryk, di Wyler e perché no di Hataway, di Ford”. Il romanzo manzoniano andrebbe dunque letto anche alla luce del nuovo realismo americano (che tanto influenzò pure il Neorealismo italiano, si pensi ad un film come Furore); tutto, insomma, pur di risciacquare dal romanzo quella patina di ingessata bonarietà da oratorio che s'era andata accumulando negli anni, e che aveva prodotto le precedenti versioni cinematografiche (figlia di quella cultura, pur conservando un'onestà di fondo, era anche la versione del 1941 di Mario Camerini, prodotto di un'estetica che da lì a pochissimo verrà spazzata via da Visconti con Ossessione).
Il cinema italiano di quegli anni anelava ad un nuovo realismo che oltrepassasse l'urgenza documentaria del Neorealismo, ma che allo stesso tempo non andasse a riscoprire le leziosità decorative dei telefoni bianchi e del putrescente decorativismo dell'estetica fascista. Visconti con Senso aveva aperto la strada: recuperato un classico tardoromantico lo aveva letto alla luce del verismo di Fattori e Lega, ma era rimasto fedele alla “progettualità” morale e gramsciana del Neorealismo propriamente detto; e davvero il cinema italiano sembrava essersi riappropriato della realtà, di una realtà “vera” ma estetica, al di là del documentario. Quando allora il progetto manzoniano sembra prendere corpo quello di Visconti pare subito il nome più adatto per sedere dietro la macchina da presa (qualcuno aveva anche fatto il nome di Fellini, ma l'autorità di Senso parlava da sola): il realismo manzoniano, il continuo fermento di forze che strisciano lungo tutto il romanzo sembravano adatti per lo stile che Visconti aveva inaugurato col suo film tratto da Boito. Chi meglio di Visconti avrebbe potuto dar luce alla concretezza del barocco milanese descritto da Manzoni? Gli squarci caravaggeschi e le scene di folla, ma anche l'intimismo e i momenti più lirici parevano chiamare a piena voce il nome del “Conte Rosso”.
Nigro e Moretti ricostruiscono, allegando un corposo dossier documentario, una vicenda che chiama in causa i maggiori intellettuali del secondo dopoguerra. Manzoni (come Boito prima di lui) offre lo spunto per la riflessione sul nuovo concetto di realtà che il cinema (ma non solo il cinema) italiano doveva perseguire, e su cui si interrogava una volta superata la stagione neorealista. Manzoni diventa “moderno” a tutti gli effetti; si tentano addirittura trasposizioni contemporanee, come quella siciliana proposta da Giuseppe De Sanctis e Libero de Libero, con L'Innominato che diventa Salvatore Giuliano (ed è proprio vero che certe volte i film più belli sono quelli mai realizzati). Una discussione articolata, questa sul romanzo manzoniano, che funge in un certo senso da anticamera a quell'altro grande dibattito critico tra cinema, letteratura e politica, che avrà al suo centro sempre Visconti e che porterà alla realizzazione, concreta questa volta, di un film come Il Gattopardo (vicenda ricostruita scrupolosamente in un recente libro di Anile e Giannice). Il film tratto dai Promessi sposi, invece, non verrà mai realizzato: troppo complesso, troppo articolato, probabilmente impossibile; il progetto rimarrà solo sulla carta e sarà dimenticato per molto tempo, fino a quando gli scavi dei due studiosi che hanno curato questo libro (e che si abbina ad un precedente volume, curato sempre da Nigro, in cui si pubblicava il “trattamento” di Bassani) lo hanno riportato alla luce. Ma a Visconti il progetto manzoniano rimarrà sempre in testa, se ancora nei primi anni Sessanta, alle soglie del Gattopardo, girava un provino con Sophia Loren per un film incentrato sulla vicenda della Monaca di Monza.
I saggi di Salvatore Silvano Nigro e Silvia Moretti, che accompagnano i documenti dell'epoca, ricostruiscono un periodo del nostro cinema, in cui il rapporto con la letteratura, e con i letterati e gli intellettuali, era una cosa non solo normale ma anche auspicabile e promossa dalle stesse case di produzione, che cercavano come interlocutori, nel lavoro preparatorio di un film, gente come Moravia, Bacchelli, Bassani, Cecchi o Soldati.
Altro cinema, altri tempi, ahinoi.