Giuseppina Torregrossa CORTILE NOSTALGIA
Avevamo apprezzato Giuseppina Torregrossa ai tempi di “Panza e Prisenza” (2013) piccolo gioiellino noir imbevuto di quella sicilianità della quale va giustamente fiera la scrittrice palermitana e che ribadisce a ogni piè sospinto. La ribadisce anche in questo nuovo libro “Cortile Nostalgia” ambientato a Palermo (rione Albergheria) nel lasso di tempo che va dalla nascita del protagonista nell’immediato dopoguerra, al 1978 anno della agognata e raggiunta maggiore età della figlia nata nel 1960. La storia è quella piuttosto triste della famiglia medio borghese Mancuso: lui, carabiniere integerrimo, ligio al dovere e dalla mentalità un pò ottusa oltre che retrograda, Melina, la moglie, sposa bambina senza amore, dedita interamente alla gestione casalinga e apparentemente senza sentimenti, e Maruzza la figlia incompresa e infelice della coppia. Nel descrivere tormenti e sentimenti del terzetto, Torregrossa scava nell’incomunicabilità dei tre personaggi che non riescono a “trovarsi” nell’aridità delle reciproche incomprensioni.
L’autrice prova anche a situare storicamente la vicenda ma l’obiettivo è colpito solo di striscio e gli avvenimenti storici sono appena accennati. Certo, c’è tutto; dal governo Tambroni all’assassinio di Aldo Moro proprio nell’anno in cui Maruzza, diventata maggiorenne, si affrancherà dalle pastoie genitoriali, passando per il ’68 (il carabiniere Mancuso, di stanza a Roma, partecipa alla Battaglia di Valle Giulia restandone ferito), il movimento femminista, il terrorismo, l’avvento delle droghe, il problema dell’aborto, la mafia che agisce nel quartiere, e un’immigrazione ante litteram poiché il rione è abitato e vissuto da extracomunitari di varie etnìe fin dagli anni sessanta, ma tutto questo rimane solo la scenografia davanti alla quale si muovono i tre protagonisti. Belle le femminili figure di contorno: l’estroversa zia Ninetta, la suora da strada Antonella e la saggia migrante Mamma Africa, che contrastano, con le loro serenità raggiunte, le tristezze e i rovelli dei tre personaggi principali.
Purtroppo della leggendaria “magia delle sette fate” accennata nelle prime pagine, dovuta, forse, alle presenze africane femminili che si muovono nel quartiere, non si avverte la presenza, e anche la Palermo tanto amata dall’autrice (foto a destra), benché raffigurata come esempio di accoglienza e di convivenza pacifica tra gli uomini, è relegata nel ristretto spazio di un rione e non viene fuori nella sua poliedrica multiformità e bellezza. I due protagonisti, che alla fine della storia hanno meno di quarant’anni, sono descritti come anziani (anche fisicamente) senza più speranze, anche se nel finale, che non raccontiamo, un positivo barlume di vita nuova sembra apparire all’orizzonte sia per loro che per la figlia Maruzza che grazie alla suora Antonella troverà una sua strada che scopriremo nelle ultimissime pagine. Il tutto è un po’ troppo accademico, stereotipato e senza sussulti anche se di piacevole fattura e lettura, pur cadendo alcune volte nello zuccheroso. Un romanzo semplice e lineare che piacerà non poco agli estimatori di Elena Ferrante e che, visto il buon impianto narrativo, si presta ottimamente a una possibile trasposizione sul grande schermo.