Paolo Vites Backstage Pass, Sulla strada con The Good Doctor: Neil Young, Springsteen, Cohen, Nick Cave, Jeff Buckley…
I social network hanno dato fiato a chi non ne aveva (o non era stato in grado di dimostrare di averne). E hanno stimolato molti a raccogliere pensieri, ricordi, frammenti dal passato per riproporli in ogni modo, lasciandoli esplodere attraverso blog, profili Facebook e siti che danno a chiunque la patente di cronista e giornalista. Nella musica il fenomeno è gigantesco e comprensibile, perché nulla meglio di una canzone stimola la memoria. Accade così che la cronaca un po' amatoriale ma non sempre disprezzabile si mescoli alla professionalità riconosciuta. E la memoria diventa flusso unico.
Ognuno ha qualcosa da raccontare e non è detto che chi non ha mai navigato nella stampa specializzata non abbia spunti efficaci, ma esistono pur sempre una credibilità e una sostanza che sono figlie del tempo, delle esperienze che solo il tempo stratifica, degli incontri preziosi avvenuti quando tutto era meno raggiungibile di oggi e certi artisti ti sognavi di contattarli direttamente attraverso il loro profilo piazzato su un social network.
Un libro come "Backstage Pass", messo insieme proditoriamente da Paolo Vites, cronista rock di lungo corso e provata resistenza (da Jam al Sussidiario ne sono passate di stagioni, mode, musicisti e ne sono fallite di testate), è tutto ciò che serve, perché pur in una stringatezza figlia dell'auto-produzione, l'autore ligure trapiantato in Lombardia è capace di racchiudere il senso di questa premessa.
In un'operazione carica di sentimento ma anche di nozionismo e amore e cura per il dettaglio (che nulla è senza il calore della passione), Vites (in questa foto) ha provato a far coesistere il tratto autobiografico con il passo del cronista, lasciandosi percepire quasi sempre nel cuore dell'azione senza alcun eccesso di autoreferenzialità, come in un film dove l'ombra del regista spunta sul marciapiede, a lambire il cavalletto della cinepresa.
Bello, in quest'ottica, il capitolo di apertura, "Genova per noi", del treno che portava al capoluogo, di "Renaldo and Clara" di Bob Dylan da poco nei cinematografi, di un recital di Allen Ginsberg a Palazzo Ducale e dell'arrivo in città di Dalla e De Gregori col loro tour Banana Republic. Osservare questa fotografia e non cogliere l'intenzione di legare punti essenziali di uno stesso disegno è come ascoltare un album senza accorgersi che è fatto di tracce separate ma ordinate con una logica e non di una canzone unica.
C'è l'anima della canzone d'autore, italiana e nordamericana, nei primi fotogrammi del rock'n'roll movie su carta che ci propone l'ex redattore di Jam (rivista che al songwriting si è dedicata con intensità e che passando per un sito oggi è diventata una web tv). Nel tempo, fatto il suo naturale passaggio da fan attento a fruire il meglio delle sue passioni musicali a professionista della comunicazione, Vites è diventato una penna in grado di avvicinare gli idoli di una volta e di scoprirli e raccontarli quando era il caso un po' dissimili dall'immagine che era rimbalzata qui: "CSN vennero da noi nel 1983 in cravatta, Crosby fatto di crack avevo lo sguardo allucinato e Nash i capelli cortissimi", ricorda l'autore, fortunato anche a ritrovarli a più riprese cambiati e avvolti da atmosfere surreali per chi aveva conosciuto la fama più ampia.
"Crosby", prosegue Vites (in "la nostra bandiera freak"), "lo avrei rivisto anche nel 2014, un trapianto di fegato e molti acciacchi dopo a Como senza neanche una band" (nella foto a destra, da sinistra, David Crosby e Paolo Vites). E via cronaca appassionata del concerto al Teatro Sociale, l'unico in cui nel nostro paese si è visto David Crosby ("sorriso da gatto siamese, i baffoni e l'aria della persona più buona del mondo") solo voce e chitarra acustica, appunti tratti come molti altri dalle pubblicazioni recenti de Il Sussidiario.
Scorrendo le pagine di Backstage Pass (titolo ordinabile su Amazon) scopriamo il racconto limpido e sincero di quando "arrivò Jeff Buckley e a me diceva poco o niente perché erano tutti lì a sentire il figlio di Tim e io odio queste cose". Nessun dietro front nel resto del racconto, semmai l'ammissione che "la musica è bella per questo: fa piangere o ti fa incazzare". C'è molto altro negli appunti riguardanti Buckley, che vanno letti per cogliere le molte sfumature del pensiero avverso al compianto cantautore figlio d'arte, della cui musica si continua a parlare molto anche a vent'anni dalla sua prematura scomparsa e che ancora riesce a dividere i fan del rock.
E' una lettura per iniziati al rock e per fedelissimi della musica d'autore nordamericana quella che scorre qui. Bisogna aver presenziato a diversi arrivi - alcuni fuori tempo massimo - di ex grandi star americane per apprezzare l'omaggio a Carlo Carlini, l'impresario fan che faceva transitare dal nord Italia gente come Rick Danko della Band (nella foto a sinistra con Vites) e Joe Ely, o per non perdersi tanti riferimenti preziosi e ricami pronti a legare citazioni da stampa estera o consigli utili di critici musicali d'oltreoceano con cui a Vites è capitato di lavorare ("Greil Marcus affermava che se si perde il gusto di ascoltare musica è necessario distaccarsi da essa, scrivere di qualcos'altro, per poi scoprire che tornerà a reclamare una presenza nella tua vita").
Solo uno che ha attraversato il bello e il brutto, i tempi floridi e le vacche magre dell'editoria musicale italiana può avere avuto modo di scorgere, in anni e anni di interviste e attese, di consensi e di rifiuti a parlare (accade, e nemmeno infrequentemente), "le scarpe rosse di Chrissie Hynde accanto al suo letto sfatto" o di maledire la collega che fece male la foto della vita "con me e Joe Strummer che sembravamo due puntini sullo sfondo". Perchè è nel tanto che si raccolgono le migliori memorie, è calando la rete per notti intere che si trovano poi inutili ciabatte e pesce con cui sfamarsi e sfamare.
C'è molta cronaca da retrovia qui dentro, ci sono le occasioni mancate e le parole dette all'ultimo momento, prima di salutare quel musicista che non rivedrai mai più e glielo stai leggendo negli occhi. C'è tutto quel bagaglio di cianfrusaglie che ti porti a casa dopo un'intervista e che finisci per non mettere in pagina, per pudore, per eleganza, perché pensi che in fondo non gliene freghi nulla a nessuno. E invece sono il sale di quest'attività e di questo amore senza orologio che è scrivere di rock'n'roll.
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