Paolo Spaccamonti
Paolo Spaccamonti è un musicista dalla grande sensibilità, dote che gli ha consentito di sviluppare una propria idea di suono sempre riconoscibile, nonché una propensione immaginifica ed immersiva che attraversa tutta la sua produzione. Ogni disco rappresenta una toccante forma di resistenza artistica e culturale contro una deriva che sembra inevitabile. Il testo che segue non costituisce una intervista, piuttosto uno scambio di riflessioni su come la musica non possa prescindere dalla vita, sulle dinamiche che segue l’ispirazione e sui progetti futuri. (Foto di Matilde Piazzi e Francesca Togni)
Dall'ascolto dei tuoi lavori ho percepito nel tempo una sorta di graduale avvicinamento ad una idea di minimalismo che ti ha portato a sottrarre più che ad aggiungere, a giocare più sugli equilibri del vuoto piuttosto che a saturare gli spazi. Ti ritrovi in questa sensazione?
Assolutamente. Direi che è stata un’evoluzione naturale. All’inizio avevo quest’ansia irrefrenabile di dover riempire tutto. Col passare degli anni ho trovato sempre più interessante dare spazio ai silenzi, che sono altrettanto fondamentali e che via via hanno preso il posto delle note.
L'Arte costituisce sempre una forma di rielaborazione e di interpretazione della propria vita e del modo di guardare il mondo. È cambiata nel corso della tua esperienza di compositore la tua attitudine a riversare te stesso nella musica?
Non più di tanto direi. Da sempre tutto quello che scrivo è il risultato di ciò che bene o male ho vissuto nell’ultimo periodo. Forse è cambiata nei tempi, nel senso che sento meno il dover dimostrare di essere un musicista, e questo indubbiamente mi rende più pigro e meno produttivo. Ma ad oggi, nonostante tutte le incertezze che continuano a paralizzare parte del mio essere, trovo ancora stimolante lavorare su nuovo materiale. E lo faccio attingendo indubbiamente dalla mia vita.
In “Nel Torbido”, album uscito per la tua label Liza, si lambiscono territori cameristici, penso alla traccia di chiusura Ha Ragione La Notte con la toccante partecipazione di Julia Kent. In questo senso, come si struttura in concreto il metodo di un lavoro di collaborazione con altri artisti (Ramon Moro, Stefano Pilia, Jochen Arbeit, Stefano “Fano” Roman, solo per citarne alcuni), quali sono le dinamiche di scambio delle idee che troveranno poi una stesura definitiva?
Non parlerei di metodo. Con Julia mi trovo in totale sintonia e so per certo che qualsiasi cosa farà su un mio brano sarà perfetto. Ha a che fare con l’alchimia. E non è matematico, a volte credi di poter suonare bene con qualcuno solo perché sulla carta è affine al tuo stile per poi ritrovarti in studio a guardarti negli occhi. Con lei non è così. Si parte e si suona come se lo si facesse da sempre. Davvero, è una magia, non saprei come altro definirla. E questo vale per tutti i collaboratori con cui ho avuto la fortuna di lavorare.
Ritrovo una costante presenza del blues nel senso più basico del termine, trasfigurato attraverso la produzione del suono, la stratificazione dei loop e dall'uso delle modulazioni. Questa caratteristica secondo me, rappresenta la controparte materica di ogni tuo pezzo. Ci puoi raccontare quali sono state le tue prime fonti di ispirazione e come hai assimilato questa materia sino a farne un linguaggio personale? E, ancora, quando hai capito che la musica sarebbe stata la tua strada?
Diverse, ma se dovessi sceglierne una tra tutte direi Black Sabbath. Un’autentica ossessione, non solo per me. Sono idolatrati nel mondo da metallari, rapper, ascoltatori occasionali, ravers… Tutti amano i Sabbath e fanno bene. Diciamo che l’approccio di Toni Iommi (molto blues) lo ritrovo ancora adesso tra le pieghe di alcune mie composizioni. Poi certo, è quasi impercettibile, ma c’è quasi sempre. Col tempo ho affinato un mio stile personale, mischiando generi, esperienza e anche mancanza di tecnica, che a volte può diventare valore aggiunto. Anche se preferisco sempre chi studia (e lo invidio). Con la musica ci è voluto un po' affinché mi convincessi che fosse la strada giusta, e questo paese con la sua percezione del musicista = fallito non ha aiutato. La prima volta che sono salito su un palco ho sentito un’energia diversa, come se quello fosse il mio posto, e da allora non è più cambiato. Stavo bene. Stessa cosa con gli studi di registrazione e tanti anni dopo col teatro (durante le prove per l'allestimento di uno spettacolo ad es. ). Tutti non luoghi direi, bolle. Ecco: io ho bisogno di bolle. Questo mondo così com’è mi fa ribrezzo, da quando sono nato.
E' stato da pochissimo pubblicato per la Die Schachtel Records “Ifigenia /Oreste”, l'album che contiene le musiche originali dello spettacolo teatrale andato in scena al Teatro Stabile di Torino per la regia di Valerio Binasco. Da segnalare il lavoro su "Die Puppe" di Lubitsch con Ramon Moro, "L'Uomo Con La Macchina Da Presa" di Vertov con Stefano Pilia e Adrian Utley, "Vampyr "di Dreyer con Jim White e Ramon Moro e ancora prima la colonna sonora del film "I Cormorani”, sempre con Moro. Sembra che lavorare sulle immagini ti ispiri in modo particolare visti i risultati.
Sì, perché presuppone un approccio da punto di vista diverso. Il lavoro iniziale non parte da zero come nei dischi solisti bensì da una visione di un altro, in questo caso il regista. Sono modi diversi di approcciarsi alla materia. Un lavoro di insieme che mi stimola.
Ogni brano posto in chiusura di un tuo album sembra avere qualcosa di sospeso, una coda che si riconnette ad una ideale prosecuzione futura. Ci puoi anticipare quali saranno i tuoi prossimi progetti?
In primavera dovrebbe uscire il secondo capitolo del progetto Spano. Poi proprio stamattina mi è stato proposto, anzi commissionato, un nuovo disco da un’etichetta prestigiosa. È la prima volta che mi accade e sono galvanizzato. Non vedo l’ora di iniziare. E poi ci sono due colonne sonore.