Goat WORLD MUSIC
[Uscita: 20/08/2012]
Da Korpilombolo, estremo Nord della Svezia, terra di sciamani e riti magici, arrivano questi misteriosi Goat che si dichiarano eredi di una tradizione voodoo che nelle loro terre esisterebbe da prima della cristianizzazione e che ha influenzato la musica di quelle lontanissime e isolate lande, musica usata per creare uno stato della mente che connettesse l’uomo con lo spirito. Vero o meno che sia questa storia il fatto indiscutibile è che ci troviamo davanti a un disco sorprendente e fiammeggiante, irresistibile e caldissimo, una delle cose più eccitanti che mi sia capitato di ascoltare in questi ultimi anni, bisogna risalire agli esordi dei !!! per ritrovare una rilettura così convincente del funky e della black music. Ma non c’è solo questo nella musica dei Goat. Come da loro stessi dichiarato il titolo “World Music” si riferisce all’apertura che la band ha verso tutte le musiche del mondo dal black metal al jazz, nessuna esclusa. Nel sabba sonoro che sconvolge e cattura vengono vorticosamente frullati afrobeat, psichedelia, post punk, funky, kraut, tribalismo, trance, patchanka, folk.
La musica dei Goat ha forza, energia, potenza ritmica e fra rullare ossessivo delle percussioni e infuocati ritmi funky il nome che per primo salta in mente è quello del campione nigeriano dell’afro beat Fela Kuti, demone che percorre felicemente gran parte del disco, ho forte il sospetto che parte del liquido seminale che Fela ha sparso per il mondo sia approdato nelle gelide terre della Lapponia e abbia stravolto il dna dei nostri musicisti. Si inizia subito bene con una cover strumentale della bellissima Diarabi, straordinaria canzone del maliano Boubacar Traoré, dalle melodie del deserto si passa all’Africa nera di Goatman con l’urlato canto femminile che sembra uscito da un mercato di spezie e frutti tropicali, percussioni ossessive e chitarre lacerate. In Goathead ritmi kraut e psichedeliche chitarre distorte urlanti si stemperano nel finale in un arpeggiare gentile di chitarre acustiche.
Disco Fever con suoni di un organo del tempo che fu, canto ipnotico, colonne sonore alla Fulci che tornano alle orecchie, Golden Dawn piacerebbe a Brian Auger, mentre Let It Bleed è afrobeat fra Kuti e Mapfumo impreziosito nel finale da un sax ruggente. Ritmo folle in Run to Your Mama con percussioni afro con forti simpatie per il diavolo, chitarre hard e un canto femminile acuto e scatenato ne fanno un mix esplosivo; e si arriva al gran finale di Det som aldrig förändras / Diarabi un andamento circolare, ripetitivo e sinuoso con influenze mediorientali che fa pensare ai migliori Transglobal Underground, un Bolero in versione trance psichedelico, il titolo significa ”quello che non cambia mai” e la canzone si conclude riproponendo la melodia dell’iniziale Diarabi, il cerchio si chiude anche perché l’unica alternativa che ci resta è quella di ricominciare da capo e rimettere il disco sul piatto e non fermarci più.
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