Bjork VULNICURA
[Uscita: 20/01/2015]
Islanda # Consigliato da Distorsioni
Un perfetto e paritario connubio tra la classicità di un’orchestra d’archi e le futuristiche soluzioni delle partiture elettroniche, ecco quello che ci propone il folletto islandese al traguardo del suo nono album. Album che esce a sorpresa, (su I-Tunes prima di tutto) in tutta fretta e in anticipo di un paio di mesi per far fronte al leakeraggio che l’ha già messo in rete da giorni abusivamente. “Vulnicura” si destreggia tra le asperità, qui un po’ più ammorbidite, del precedente “Biophilia” e le cose un po’ meno ostiche dei dischi ancora precedenti, ma è pur sempre un’opera straniante e di difficile ascolto come da tempo Bjork ci ha abituati. Ispirato dalla lacerante separazione affettiva, dopo il decennale rapporto, da Matthew Barney, Vulnicura (anche il titolo è un programma nella sua accezione latina tra vulnus = ferita e la cura per riuscire a lenirla) racconta di famiglie, di rapporti umani, di ferite e guarigioni e lo fa con un taglio composito pur nell’indiscussa unicità dell’album. In apertura troviamo una vera perla che dischiude le porte a un lungo ascolto che richiede un’estrema e totalizzante attenzione: Stonemilk procede ieratica nella fusione tra archi ed elettronica con la voce di Bjork a cementare tutto ponendo le basi per una nuova formula musicale ancora indefinibile, che si avvicina ad una musica classico-sinfonica di stampo operistico ancora senza nome.
Nessuno strumento tradizionale del mondo del rock dal quale Bjork proviene, e che forse si è lasciata definitivamente dietro le spalle, si ascolta in queste nove tracce; degli archi si è già detto, poi il solito suggestivo coro di ragazze islandesi e le diavolerie elettroniche dei co-produttori e programmatori: Arca e The Haxan Cloak che tratteggiano con ritmi sincopati, battiti e palpitazioni, brani come History of Touches che incornicia di soli soffi, fruscii e tappeti sonori la sempre splendida voce che meno di altre volte si arrampica su altezze innaturali rimanendo nel solco di una dolcezza senza asprezze. E i dieci minuti di Black Lake, sorta di mini suite sperimentale, sono ancora sintomatici trasformandosi lungo il percorso da una forma canzone in lunghe pause, quindi in momenti glaciali di sincopi percussive che sfociano in una sorta di tammuriata robotica, fino ad arrivare a quella sorta di armonium sintetico che vagheggia una sorta di raga orientale. Family vede Bjork duellare con un violoncello convulso e febbrile per terminare con un finale rarefatto ed etereo, Notgest si divide invece tra labili aperture di folk islandese e un più marcato minimalismo artificiale e reiterato che deve molto a Glass e a Nyman. Atom Dance vede ospite l’apporto, minimo ma riconoscibilissimo, della voce di Antony Hegarty, è una sorta di valzer avveniristico e spaziale contaminato da un violino barocco. Dopo essere passati per gli squittii, i sibili ed i soffi che rivestono Mouth Mantra si giunge al brano conclusivo Quicksand, che pur con sola voce, percussioni sintetiche e tappeti elettronici è la canzone più orecchiabile (?) dell’album. Vulnicura è un nuovo importante passo di Bjork verso la meta di una musica ancora in divenire, un album che farà discutere, che dividerà, ma che innegabilmente è permeato da un fascino al quale non ci si può sottrarre.
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