Converge THE DUSK IN US
[Uscita: 03/11/2017]
Stati Uniti
Né l’idea di Boston anni zero, né la possibilità di una metafisica della distorsione sarebbero possibili senza il fondamentale “Jane Doe” con il quale nel 2001 i Converge gridavano tra Seattle e Genova che un altro hardcore è possibile. Tanto che si deve resistere alla tentazione senile di impacchettare quelle esperienze all’interno di un tombale “formidabili quegli anni”. Se non altro perché i Converge continuano a sfornare produzioni mai banali e all'altezza delle loro stesse aspirazioni ben espresse dal cinereo motto “All We Love We Leave Behind”, titolo del loro precedente disco del 2012. È così che si arriva a questo “The Dusk in Us” che sin da subito si configura come una fiera sterzata verso i territori dell’emocore meno emotional che si possa ascoltare. L’apertura di A Single Tear è una prova del virtuosismo interpretativo di Jacob Bannon che alterna scream e clean vocals, tirata mirabilmente verso il plafond, in un crescendo toccante che nell’ugola dei più avrebbe solo fatto gridare al grottesco patetismo degno del primo ortaggio alla mano. Evidentemente il passare degli anni corrobora la vena lirica di Bannon il quale non lascia più solo alla sua interpretazione l’incombenza espressiva ma si cimenta con buoni risultati in una scrittura che assolve a compiti meno esornativi e più narrativi. È il caso di Archipov Calm, serrato apologo di feroce redenzione quasi illuministica: «It’s the fires that we quell that save us from our hells / It’s the wars that we don’t fight that keeps love alive».
Le capacità adattive di Newton e delle sue linee di basso permettono d’altra parte a Converge di porsi come l’unica sintesi vivente tra hardcore e post-metal che non sia una cattiva esecuzione di entrambi e questo forse è reso possibile dal compito di traduttore tra i due generi esercitato da un certo gusto noise che insiste in gran parte dei mid-tempo di The Dusk in Us. A sostenere la poetica della miscellanea la chitarra di Kurt Ballou disegna ricami melodici che sono ferite laceranti sul corpo gelido della title-track, una disperata esposizione delle atrocità in otto spossanti minuti. Non è facile attingere a piene mani da un repertorio freddo che si vuole post-post metal e far scorrere sul suo corpo il magma incandescente della seduzione, eppure episodi come quello di Trigger sono capaci di proporre atmosfere hard blues coperte da un velo di impassibilità che non lascia scampo. Come il resto del disco tutto cesellato – non usiamo a caso il lemma – da vertigini oscure e da tagli geometrici della chitarra distorta quasi sempre sbilenca come nella conclusiva, decadente Reptilian. Converge alla nona prova in studio non delude le aspettative regalando alla scena estrema un prezioso lavoro di intarsio che attraversa verticalmente ogni sfumatura del post-alcunché senza tuttavia giungere ad avere una sua fisionomia ben definita: non arriva a squarciare il muro del già noto. La maestria è notevole ma è talento aritmetico da ragionieri dei generi che non produce alcun disavanzo emotivo. Pari e patta.
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