Jonathan Wilson RARE BIRDS
[Uscita: 2/03/2018]
Stati Uniti
Dopo due dischi di stampo californiano anni ’70 (“Gentle Spirit”, 2011 e “Fanfare”, 2013), anche per Jonathan Wilson suonano alti i richiami delle sirene dell’easy listening del decennio successivo, come già accaduto ai War On Drugs, e di atmosfere più vicine ai Pink Floyd che a Laurel Canyon. Ma se nel caso di Granduciel (e più o meno soci) non si andava più in là di onesto mestiere, a Wilson va riconosciuta in "Rare Birds" una capacità di scrittura ed esecuzione decisamente più coerente, più in linea con gli episodi precedenti, il cui stile viene sottoposto a robuste iniezioni di suoni più “moderni” (virgolette molto d’obbligo, trattandosi di una modernità vecchia di trentacinque anni, anno più, anno meno), più aderente agli aggiornamenti che avevano rilanciato la carriera di personaggi quali Don Henley o visto gli esordi di Bruce Hornsby and The Range (la lunga Over The Midnight è una sintesi dei due esempi), fino a spingersi in territori carichi d’enfasi springsteeniana (There’s A Light non avrebbe sfigurato su “Magic”, non esattamente uno degli apici della discografia del Boss).
Le cose si mettono decisamente meglio quando i ritmi rallentano e l’essenza del songwriting, dote eccellente del Nostro, prende il sopravvento (Me, quasi un apocrifo di Todd Rundgren, Sunset Boulevard, 49 Hairflips) o quando la psichedelia fa capolino in maniera più decisa, come nella stupenda title track: chitarre acide e qualche parentesi evocativa della lezione di CSN&Y. O ancora quando si arriva a lambire coste limitrofe al pop elegante dei Fleetwood Mac post “Tusk” (il singolo Loving You) e dei primi Steely Dan (l’introduttiva Trafalgar Square, che dopo un’introduzione pinkfloydiana si avvicina molto a certe cose di Fagen & Becker). E che dire di Hard To Get Over? Intro affidato a una batteria che sembra presa di sana pianta da Don’t Come Around Here No More di Tom Petty e Dave A. Stewart e uno sviluppo tipico di cose già sentite da Lindsey Buckingham. L’album si chiude con due splendidi brani (Hi Ho Righteous e Mullholland Queen) che ne rialzano le quotazioni, anche perché più “classici”, forse anche maggiormente vicini allo stile che ha reso celebre Jonathan Wilson. Un disco robusto della durata di quasi un'ora e venti minuti che necessita di svariati passaggi prima di essere assimilato compiutamente, rivelando ad ogni giro soluzioni di arrangiamenti e sfumature che non erano parse immediatamente evidenti: un buon lavoro, ma da testare nel tempo per comprenderne effettivamente la portata.
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