James Vincent McMorrow POST TROPICAL
[Uscita: 13/01/2014]
Il musicista irlandese James Vincent McMorrow si regala per il suo trentunesimo compleanno il secondo disco, dopo che il primo, “Early in the morning” del 2010, è stato molto venduto e premiato in patria. Songwriter lo definiscono le biografie, ma da una prospettiva italiana verrebbe piuttosto da considerarlo un musicista soul, interprete di un pop intimista e raffinato che in alcuni passaggi può ricordare quello degli scozzesi Blue Nile. Le prime esperienze musicali di Vincent sono state come batterista, ma non lo si direbbe mai ascoltando il disco. Si tratta di ballate, quasi sempre su tempi molto lenti, con le tastiere come strumento dominante: il musicista ha inciso il disco praticamente da solo, isolandosi nel deserto, come fece Bon Iver, che però scelse la neve e i boschi. La voce di McMorrow è un falsetto molto dolce, tipico della black music, ma molto diverso da quelli nervosi che il termine black farebbe venire in mente, esempi perfetti Prince o Michael Jackson. Siamo vicini anche a bizzarri songwriter come Sufjan Stevens o Dave Longstreth dei Dirty Projectors, che ci sembrano i suoi principali ispiratori. Parentesi: è interessante per il critico notare come, non appena in un panorama standardizzato appaia un artista con un minimo di personalità esplodano di colpo migliaia di cloni. Potenza di you tube? Ottimo lavoro delle case discografiche?
Però, lo diciamo subito, il disco non raggiunge le vette compositive a cui ci hanno abituato gli esempi sopra citati: per quanto gradevole alla fine risulta un po’ troppo uniforme, i brani si somigliano troppo l’un l’altro, e questa per un disco pop è una grave mancanza. E anche la voce di Vincent, che sulla breve distanza è molto suggestiva, per chi scrive alla lunga risulta un poco stucchevole. Non che sia un brutto disco però. I brani sono gradevoli, l’iniziale Cavalier attrae, specie quando entra la sezione dei fiati; Red dust, col suo battito elettronico eppure molto umano è suggestiva. Gold è troppo enfatica, ricorda le prime cose di Antony, quando non controllava ancora la sua prodigiosa voce. Solo un paio di brani alzano il ritmo, All points, la più memore degli anni ’80, e l’accorata Glacier, che inganna con un inizio molto soffice per poi introdurre la batteria e una marziale partitura di fiati, ma i brani più convincenti ci sembrano quelli più solenni, come Repeating, una delle poche dove appare la chitarra, acustica e arpeggiata, oppure quelli più ieratici, come la già citata apertura Cavalier o la canzone che dà il titolo al disco, Post Tropical. Un lavoro di routine, piacevole, come sono piacevoli moltissimi dischi che escono ormai a ritmo quotidiano, ma troppo legato a troppe influenze.
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