The Dustaphonics PARTY GIRL
[Uscita: 1/12/2011]
Certe vicende sembrano accadere per entrare di proposito nella mitologia. Tura Satana, leggendaria protagonista di "Faster Pussycat Kill Kill" e attrice feticcio di Russ Meyer (ma che ve lo dico a fare chi è Tura Satana, spero per voi che lo sappiate), poco prima di morire contattò il dj londinese Heater Selecta per mettere su la colonna sonora del suo ultimo film. La stessa attrice scrisse il testo per una canzone del progetto, il dolente pezzo soul Burlesque queen (già uscito come singolo nel 2010), brano che sembra scritto appositamente per una scena di spogliarello di un qualsiasi film di Russ Meyer ('She’s got the moves that always turn you on' recita un verso della canzone). Tura Satana morirà di lì a poco, appena dopo l’uscita del disco, e, come spesso accade, l’album da colonna sonora è diventato un epitaffio alla memoria dell’attrice. Mitologia e aneddotica a parte, i Dustaphonics hanno realizzato un disco che, al di là della genesi come colonna sonora, riesce a farsi apprezzare di per sé. La band è londinese, ma il cuore e le corde battono e vibrano rivolti verso l’altra parte dell’oceano. Quattordici brani in cui la coolness britannica si fonde coi suoni americani in una miscela a tratti esplosiva. Il loro "Party Girl" fonde una serie di influenze prese dalla musica americana che spaziano dal garage rock alle chitarre piene di riverbero del surf classico, dal rhythm’n’blues e soul di marca Motown (riportato ai fasti, e alle classifiche, in Inghilterra da Amy Winehouse, i cui influssi si lasciano sentire anche nei Dustaphonics, vedi pezzi come Catwoman’s strut; ma forte è anche la presenza di sonorità neo-soul à la Bellrays) per arrivare al blues classico e a certe sfrontatezze sonore detroitiane (più vicine, ad onor del vero, alla Detroit di oggi, quella dei Detroit Cobras più che quella dell’Iguana). Il groove del gruppo è tutto incentrato sulla splendida e giovane voce di Kay Elizabeth, protagonista di alcune prove davvero memorabili (la già citata Catwoman’s strut, Dearest darling e una bella rilettura di Looking at you, grande classico del detroit-sound targato MC5). La sua voce è morbida e potente allo stesso tempo, e a tratti s’avvicina (s’avvicina soltanto, intendiamoci) a certi picchi raggiunti da Tina Turner tra la fine dei Sessanta e i Settanta. La band, dal canto suo, fa il suo sporco lavoro e mette in scena una serie di pezzi che spaziano tra riletture del suono vintage dei Sixties (in alcuni tratti forse un po’ troppo laccato, se non lezioso), impreziosendo la scaletta con una serie di cover azzeccate, il tutto suonato con grande potenza. Il tutto sa forse un po’ troppo di artificiale (ma in fondo è un peccato veniale), però il disco riesce a essere molto divertente.