Yes HEAVEN & EARTH
[Uscita: 08/07/2014]
“Heaven & Earth” è il 19° album di studio (escludendo le poche tracce inedite presenti sui due volumi dal vivo intitolati “Keys to ascension”) pubblicato dagli Yes; o meglio, da ciò che ne rimane, dopo una carriera attraversata da frequenti cambi di formazione. A questo punto, diciamolo subito: non si tratta certo di un’opera memorabile; del resto la band ha sicuramente espresso il suo massimo fulgore competitivo durante tutti gli anni ’70, piazzando ancora qualche rispettabilissimo colpo di coda durante gli ’80 (“Drama”, “90125” e “A.B.W.H.” sono davvero tre ottimi album), dopodichè, dai ’90 in poi, ci ha abituato a lavori routinari nella più felice delle ipotesi, estenuanti all’ascolto nei casi meno riusciti di questa discografia già di per sé in fase calante. Heaven and Earth suona decisamente stanco, bolso e ulteriormente penalizzato da una produzione sonora, a cura di Roy Thomas Baker, che con le tecnologie di oggi potrebbe essere ammissibile in un CD-demo autoprodotto. Quest’ultimo aspetto è vieppiù imperdonabile se si pensa che, tra il tocco di Eddie Offord prima e di Trevor Horn successivamente, gli Yes erano stati in passato probabilmente una delle formazioni di rock progressivo con il sound più massiccio e sorprendente nella storia.
Detto questo, a parziale giustificazione per questo nuovo album, si può dire che la formula a 8 tracce di non eccessiva lunghezza (ad eccezione dei nove minuti di Subway Walls e degli otto di Believe Again), per complessivi 52 minuti scarsi, dona quella piccola ventata di freschezza in più rispetto a opere come, ad esempio, il precedente “Fly from here”, ottuso e indigesto. C'è anche qualche momento (In A World Of Our Own) molto radio-friendly ed apprezzabile. Ciò che colpisce particolarmente però di queste otto canzoni, è una certa tendenza a scivolare nel melenso, che può ricordare a tratti certe tarde opere soliste di Jon Anderson o di Rick Wakeman, che paradossalmente sono proprio i due assenti illustri di questo nuovo disco. Accanto alla triade Howe/Squire/White, infatti, troviamo il tastierista Geoff Downes, già con loro in “Drama” del 1980 e rientrato nello scorso disco, e il nuovo cantante Jon Davison, proveniente dai Glass Hammer e quasi-clone di Jon Anderson persino nel nome oltre che nel timbro e nell'aspetto. Questo quotato interprete del Tennessee spazza via la meteora Benoit David, proveniente da una tribute-band proprio degli Yes e protagonista del precedente Fly from here. A proposito di tributi, ascoltando questa nuova opera sembra quasi di essere di fronte a un manipolo di imitatori, o forse è quanto viene istintivo credere per non accettare che ormai quelli veri citano se stessi con fare annoiato.
Tra un Howe al limite del “non-pervenuto”, alle prese con sonorità e fraseggi che non sembrano nemmeno i suoi, uno Squire che è solo il pallido ricordo di quelle cavalcate con le corde sferraglianti sul manico di brani-monumento come Roundabout, Heart of the Sunrise, Parallels, Tempus Fugit, un White penalizzato dal mixaggio e relegato a un ruolo da drum-machine, forse l’unico che si impegna veramente è Geoff Downes, il quale, non pago di pochi hit da classifica ottenuti ormai più di tre decadi or sono con i Buggles e gli Asia, cerca di dimostrare in ogni modo di sapere ancora scrivere canzoni con quel suo caratteristico stile a cavallo tra AOR, electro-pop e progressive rock. Canzoni che, diciamocelo con onestà, se anziché uscire a firma Yes - dai quali è (o fu?) lecito aspettarsi qualcosa di più - fossero state nell’album di esordio di qualche sconosciuta band emergente dell’Est Europeo, francese, tedesca o italiana, forse non ci sembrerebbero così malaccio. E tutti quelli che, tra pubblico e critica, ora si sono lanciati nel “gioco al massacro” per il solo gusto di demolire il 19° album degli Yes, ora si scatenerebbero in lodi entusiastiche salutando con gioia quelli che etichetterebbero come nuovi, fantastici eredi del grande suono Yes.
Concordo nel dire che se l’album fosse stato scritto da un gruppo nuovo avremmo tutti detto: a tratti carino, fresco… (non più di questo!).
Ma non è un problema di voler distruggere il 19° lavoro degli YES…è solo che questi, molto più di Magnification e The Ladder, dove…tra sali e scendi, lo erano, NON SONO GLI YES…o spero per loro non lo siano… .
I primi 3 pezzi di ‘Fly from here’ sono stupendi,il vocalista all’epoca fu azzeccato, nel nuovo se avessero voluto un pò cambiare direzione dovevano trovare non il clone di Anderson ma una completamente diverso sia nell’interpretare i pezzi che nella voce
L’album è indirizzato verso uno stile musicale che stacca dal rock per privilegiare altri generi musicali sicuramente meno spinti. Il lavoro del loro nuovo album è molto più esemplificato nei passaggi tecnici, ma non per questo tristi . è stata privilegiata l’unità dei suoni nel complesso, non il solo spiccato di chitarra o soli vocali che staccano dal pezzo. Non iniziamo il solito operato distruttivo,se poi questi …sono lavori…carini….beh sfido ogni gruppo di prog italiano e straniero a riprodurre…questo “stanco ” lavoro…..stappiamoci le orecchie e apriamo la mente…. YES A VITA !
Magnification e The Ladder sono lp tremendamente brutti e insieme a quei pezzi inediti di keys to ascension sono il fondo toccato dagli Yes che senza Anderson sono diventati nulli. Tremo al pensiero di ascoltare questo nuovo cd. Ho paura sia la stessa porcata ignobile come tutti i loro lavori del nuovo secolo.
Annacquato. Ma è giusto così. Non si può pretendere che un gruppo con la loro storia sia pieno di ispirazione dopo 45 anni. La voglia di suonare in eterno è lodevole ma abbiate pietà per loro (non in senso negativo ovviamente). Gli YES rimangono sempre gli YES. Li ho amati da subito (ed io c’ero quando è uscito Yes Album). Ne fanno uno ogni mille anni di gruppi così.