Iron And Wine GHOST ON GHOST
[Uscita: 15/04/2013]
Ad oltre 10 anni dal suo esordio avvenuto nel 2002 con l'intimista "The creek drink the cradle" ritorna in pista Samuel Beam, americano del South Carolina. Quell'album che adesso ci appare così lontano nel tempo aveva in pratica dato il via al cosiddetto cantautorato depressivo, ovvero una musica basata su scarni arrangiamenti, di solito di sola voce e chitarra, con punto di riferimento un artista come Nick Drake tanto per citare il più conosciuto. L'elenco dei pretendenti all'eredità del triste menestrello inglese si è allungato a dismisura nel corso degli anni finendo per ritorcersi contro se stesso vista l'inflazione di nuove voci riversata sul mercato indie-folk. Damien Rice, Bon Iver, Alexi Murdoch, Josè Gonzalez sono solo gocce nell'oceano neo-cantautoriale e scusate se ho dimenticato i vostri preferiti. Samuel Beam col nickname di Iron And Wine ha coltivato bene il suo orticello ed ha saputo attirare l'attenzione della Sub Pop, un’etichetta che negli anni novanta era famosa invece per gruppi leggermente più rumorosi del nostro barbuto cantastorie.
Con il passaggio da questa label alla major Warner Bros, ed alla 4AD per l'Europa, Sam ha dato una bella sterzata al suo sound, meno angoscioso e più attento in teoria alla melodia in senso positivo. Il risultato è il disco del 2011, "Kiss each other clean" che forse avrà fatto felici i discografici di Sam, sebbene non contenga un pezzo che poteva spingerlo in classifica, meno i suoi fedeli anche se non numerosi aficionados, un pò spiazzati dalle nuove sonorità. Quest'ultimo "Ghost on ghost" si mantiene sulla falsariga di quel disco, con arrangiamenti molto più ricchi che in precedenza controbilanciati però della scarsa ispirazione del nostro. Iron And Wine vorrebbe insomma avvicinarsi allo stile di un grande come Sufjan Stevens, di cui però non ha la stessa classe e facilità di scrittura. A tratti Sam Beam ricorda addirittura l' Elton John dei tempi d'oro, prova ne sono canzoni come The desert babbler, Joy, e Grass widows, che inevitabilmente rimandano alle ballate pianistiche dell'occhialuto del Middlesex.
Low light buddy of mine ha uno strano arrangiamento quasi David Sylvian/Japan, spiazzante, la bella Winter prayers è invece il momento più delicato ed emozionante di tutto il disco sulle tracce del Don Mc Lean di Vincent e qui si riascolta Iron And Wine al suo meglio, più scarno magari ma con più poesia. Grace for saints and ramblers e Singers and the endless son con controcanti irritanti, sono due episodi da dimenticare in fretta, non molto meglio Lover's revolution con spunti jazzistici: avrebbe giovato a Paul Weller, un pò meno all'ugola di Sam Beam. A poco serve il bel finale della ballatona Baby center stage, siamo ormai in pieno recupero e si aspetta solo il fischio di fine partita, anzi di fine cd. Un disco che per quanto mi riguarda possiamo accantonare in un cassetto: come insegna Neil Young se la polvere non dorme mai qui ne verrà accumulata un bel pò. Una svolta questa di Iron And Wine che qualcuno chiamerà evoluzione, per me un deciso passo indietro, per un artista che stimavo ma che considero almeno per il momento perso. Il fantasma di se stesso, come da titolo del disco.
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