Simon Balestrazzi LA MONTAŇA SAGRADA
[Uscita: 31/10/2012]
Decisamente i dischi di Simon Balestrazzi suonano inquietanti, alieni, criptici, stranianti. La sua proposta non è certamente per tutti i palati e richiede una immedesimazione psichica profonda per poter essere pienamente apprezzata. I riverberi cupi, le lacerazioni metalliche stridenti, le diluizioni del suono in silenzi lugubri popolati da cigolii sporadici suggerisce senz’altro, come primo impatto, l’idea di smarrimento, l’essere catapultati in un mondo estraneo, inospitale. Anche il gioco del flusso, l’intercalare ondivago quasi raggelante conduce ad un’idea di smarrimento, non solo spazio temporale ma identitario. Totale incapacità di capire, familiarizzare, comprendere e quindi sentire e condividere. Quanto di più prossimo alla visionarietà esoterica di Jodorowski. Il suo film del 1973, “La Montaña Sagrada”, a cui il lavoro di Balestrazzi si ispira, è popolato di simbolismi, una forte dose di surrealismo e allegorie. L’artista parmense propone un abbozzo ideale di colonna sonora rivisitato negli anni, inizialmente progettato con la T.A.C e poi lasciato naufragare. Qualcosa che poi suo malgrado finisce per coniugarsi perfettamente con la filosofia jodorowskiana che ha in sé elementi di interpretazione molteplice e che nell’aura di mistero e incompiutezza riconduce la grandissima forza espressiva delle sue opere: si pensi alla dualità ‘irritante/spiazzante’ – ‘avvincente/ipnotizzante’.
Già nel lavoro realizzato in collaborazione con Becuzzi e Altieri “In memoriam di J. G. Ballard”, Balestrazzi aveva provato a dar voce a linguaggi difficili. In entrambi i casi sembra volersi usare l’estremizzazione della violenza per sottolineare la perdita di identità riconducibile alla mercificazione e omologazione ossessiva imposta dalla modernità, l’incapacità di stabilire forme umane di comunicazione. Soprattutto si approda a questo senso di ricerca smarrimento che pur nelle sue sfumature di terrore e perdizione ha anche in sé la frenesia di voler provare ad andare oltre. Superare le paure, i preconcetti, le imposizioni dettate dal sistema o da una tradizione impositiva di modelli e schemi prestabiliti per conoscere la propria identità. Un viaggio sofferto che è senz’altro allegoria del cammino percorso da Giovanni della Croce nel suo ‘La salita al Monte Carmelo’ e a cui il film di Jodorowski in parte si ispira. Un viaggio che riassume senz’altro lo sforzo ascetico per superare la notte buia dell’anima. Qualcosa che va oltre ogni senso religioso, che si protende verso la comprensione profonda della natura umana.
Ognuna delle cinque tracce è intimamente connessa e diventa narrazione. Dalla liquidità serpeggiante e insidiosa di Opening Ritual, in cui le atmosfere di sospensione e suspence sono lacerate da graffiate urticanti, stridori e riverberi claustrofobici; al precipitare lento e inesorabile di In the Rainbow Room, dove il silenzio è denso e pregnante, interrotto da impercettibili lampi che sono scosse di gelido atterrimento. Seguendo questo filo macabro e lasciandosi portare alla deriva si può arrivare ad uno stato di tensione crescente, quasi apneico. Axon è l’isolamento, l’angoscia, il vagare disperato, la mancanza totale di ogni riferimento, allo stesso tempo è una camera di decompressione in cui diventa possibile riconciliarsi. Il rumorismo industriale lascia spazio ad una nenia di oboe orientaleggiante che è come uno squarcio delle tenebre, un graduale risveglio. I feedback e i droni sono meno abrasivi, diventano spiragli, tracce di vita. Its perfume is my Blood continua il senso di movimento che è quasi approdo in una dimensione nuova dove ogni segnale è captazione, stimolo sensoriale. La rivelazione che dovrebbe essere contenuta nella traccia finale Leopards Milk si apre a nuovi punti di domanda. Il senso di mistero, il propagarsi quasi indefinito di onde incolori, l’assenza di variazioni fino all’interruzione secca del finale, segnano l’inizio di quella ciclicità che lascia l’arbitrio finale all’uomo. Scegliere la propria autenticità o farsi corrompere dal ‘voi chi dite che io sia’, ovvero l’identificazione del sé attraverso modelli e iconografie che provengono da una realtà estranea all’Io. Prova mirabile.
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